De Luca spiega l’insulto da “str***a” che diede Giorgia Meloni. «Vi racconto come è davvero andata»
«Ho studiato medicina. Tre anni. Ma era il tempo della politica, c’era da cambiare il mondo». E sicuramente nel suo, di mondo, Vincenzo De Luca ha avuto un certo impatto. In un’intervista-fiume rilasciata al Corriere della Sera, il governatore della Campania spiega anche cosa è successo in merito all’incidente diplomatico con la premier Giorgia Meloni, dove la definì stronza. «Cinquemila persone e 550 sindaci salgono a protestare a Roma contro l’autonomia differenziata e per lo sblocco dei fondi bloccati, chiedono per ore d’esser ricevuti, sono circondati da agenti in tenuta antisommossa come dei briganti, vanno a Palazzo Chigi e lo trovano sbarrato. E mentre siamo lì la Meloni manda a dire, razzista: “Vadano a lavorare!”. Ma vacci tu a lavorare». Il suo sfogo, prosegue, non sarebbe peraltro avvenuto in pubblica piazza: «Stavo parlando con Francesco Verderami mica in piazza, su un divano della Camera. E uno si avvicina col cellulare acceso a penzoloni per non farsi vedere. Vorrei vedere Giorgia se fosse intercettata mentre sbotta in un colloquio privato dopo essere stata provocata come me!».
I fuori onda
Certo è che il termine utilizzato non fu simpaticissimo. «Ma – obietta De Luca – dopo ore di tensione, spintoni, porte sbarrate… In un contesto privato… Cosa feci io quando uscirono i fuori onda di Giambruno? Espressi alla Meloni la mia solidarietà. È lei che mi ha dedicato tanti momenti polemici che a un certo punto ho pensato che avesse sentimenti inconfessati nei miei confronti». «Mi tira sempre in ballo, come fossi l’avversario numero uno. Avevamo solo un’ambizione: lavorare in pace. E lei ci fa perdere un sacco di tempo», conclude caustico De Luca.
Gli inizi
Nel corso dell’intervista De Luca si racconta in modo esaustivo e senza perdere la sua ormai caratteristica vena ironica. A cominciare dalle origini, che malgrado la sua granitica carriera non sono propriamente campane: «Mio padre era di Ruvo del Monte, Basilicata. Lì sono concepito. Durante uno dei suoi (rari) ritorni a casa da Caracas, dov’era emigrato a cercar fortuna». Non trovò proprio fortuna, ma «con un gruzzolo che gli consentì d’aprire un negozietto a Salerno. Un cugino prete, don Peppino, gli aveva messo in testa che ai figli doveva far fare il liceo classico… Perciò scelse la città. Per farci fare il “Tasso”». A quel punto, la parentesi universitaria. E poi la scelta di seguire il grande amore, la politica: «Vivevo quella scelta con una sensazione di esclusione sociale. Alla fine mi laureai in Filosofia con Biagio De Giovanni. Con una tesi sulla critica dello Stato fra Lenin e Gramsci. Scelsi il tema perché, diceva De Giovanni, nella cultura di sinistra c’è un grande vuoto: la cultura dello Stato, dell’amministrazione. La mia fissa».
Il Pci
Perché il Pci? «Salerno – spiega De Luca – era la città della “svolta di Salerno”. Con un forte filone amendoliano. Io ero imbevuto di Gramsci e Gobetti. Diciamo che pesarono la naja, le letture, il martirio di Allende ed esperienze come le sofferenze di mio padre in ospedale alle prese con la burocrazia. Il mio chiodo fisso». Agli esordi, cominciò «lavorando per il partito e l’Alleanza dei contadini sfruttati». All’epoca, svuotò per la strada un’intera cisterna di latte. «Era un camion della Cirio. Il latte era comprato a cifre ridicole. Ci fu un blocco stradale. E aprimmo i rubinetti. Era il momento delle quote europee. Che obbligavano a distruggere le arance o i pomodori oltre una certa produzione. Erano lotte dure».
Il periodo in carcere
In quell’occasione, non venne arrestato. Nel ’78, però, sì: «A Persano nella piana del Sele dove la gente chiedeva la distribuzione delle terre incolte dei Borbone ora del demanio. L’assemblea più furente fu di sera. Tentammo un’incursione nell’area demaniale, i carabinieri erano in piedi dalle quattro di mattina. E ci riempirono di botte». Dal carcere uscirà grazie a «una mobilitazione generale». A quel punto, «a cavallo degli anni ‘80, faccio prima il responsabile economico poi il segretario provinciale del Pci. E capogruppo in consiglio comunale. Fino a diventare vice-sindaco. E poi dal ’93 sindaco».
Il cambio di passo
Tempi che De Luca sembra rimpiangere: «Con Berlinguer c’era una competizione interna per creare una classe dirigente. Ma oggi? I gruppi dirigenti per il 90% non rappresentano nulla nei territori. Estraneità totale alla militanza, alla fatica per la conquista del consenso. Vedo dirigenti sempre rilassati, sereni, la pelle morbida e vellutata. Come in vacanza». Che durano pochi anni perché, spiega De Luca, «non si radicano sul territorio». Ma questo sarebbe proprio il segreto del suo successo: «Mica ho preso i voti per il programma di partito. Il consenso lo hai se hai il rispetto della gente al di là della politica».
I risultati
E chiaramente, per i risultati che ottieni: «Abbiamo ripulito aree di degrado, ridato una identità a una città che non era nulla», dice De Luca parlando di Salerno. E il merito non è da dividere con Roma, «da cui non arriva niente», ma piuttosto con «i fondi europei che sappiamo spendere». «Con la Meloni, poi! – prosegue De Luca – L’ultima truffa è questa dei 388 milioni alla Campania: son soldi del Fondo sviluppo e coesione 2021-2027 che avanziamo! È da ottobre che dialoghiamo con pazienza francescana: ci han fatto perdere un anno sottraendo alla regione due miliardi per operazioni finte tipo la truffa di Bagnoli e costringendo noi ad eliminare progetti cantierabili domattina».
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