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L’eolico offshore galleggiante è la fonte di energia che può far decollare l’industria italiana. Ecco cosa manca al via

La costruzione di pale eoliche da installare in mare attiverebbe alcuni settori chiave del Made in Italy. Tra il 2020 e il 2023 richieste per oltre 100 GW, ma il governo resta cauto sugli obiettivi

Bastano due numeri per rendersi conto dell’enorme potenziale, finora esplorato, dell’energia eolica offshore in Italia. Il primo è 8.300 ed equivale alla lunghezza complessiva delle coste italiane misurata in chilometri. Il secondo numero è 10 e indica il numero di pale eoliche attualmente in esercizio in mare. Ad oggi, c’è un solo impianto per la produzione di energia eolica offshore in Italia. Si chiama «Beleolico» ed è stato realizzato da Renexia al largo di Taranto, in Puglia. A differenza di quanto avviene nel Mare del Nord, navigando per il Mediterraneo è piuttosto raro imbattersi in aerogeneratori installati in acqua e il motivo è abbastanza semplice. Il mare che separa l’Europa continentale da Scandinavia e Regno Unito ha profondità molto basse anche a diverse decine di metri dalla costa. Una caratteristica che lo rende ideale per fissare le pale eoliche al fondale marino. Nel Mediterraneo, invece, bisogna fare i conti con profondità decisamente più impegnative, che finora hanno frenato investimenti e progetti.

Eolico offshore? Sì, ma galleggiante

Una via d’uscita c’è e risponde al nome di eolico offshore galleggiante. La differenza rispetto agli impianti tradizionali, come suggerisce il nome, sta proprio nel fatto che gli aerogeneratori non sono fissati al fondale marino, ma installati su piattaforme che galleggiano sull’acqua. Questa semplice caratteristica porta con sé una cascata di vantaggi. Il primo è di tipo paesaggistico: posizionare i parchi eolici a diversi chilometri di distanza dalle coste rende gli aerogeneratori quasi invisibili dalla terra ferma, azzerando (o quasi) l’impatto sul paesaggio. Il secondo vantaggio riguarda la potenza delle turbine, molto più grandi di quelle installate sulla terra ferma e quindi in grado di generare molta più energia (quasi tre volte rispetto agli impianti eolici tradizionali). C’è poi la questione relativa alle infrastrutture: la possibilità di costruire aerogeneratori galleggianti fa sì che l’unica costruzione da realizzare sulla terra ferma sia una struttura per il collegamento dei cavi. Quanto alla pesca, infine, l’impatto è tutto sommato trascurabile. Anzi, gli operatori del settore eolico offshore promettono che gli impianti di produzione di energia contribuiranno a contrastare la pesca a strascico, bandita in tutta l’Unione europea a partire dal 2027.

Beleolico, il primo parco eolico offshore d’Italia, al largo di Taranto (Foto di Renexia Spa)

Un settore in fermento

Secondo il Global Wind Energy Council, l’Italia rappresenta il terzo mercato mondiale per lo sviluppo dell’eolico offshore galleggiante. Il Politecnico di Torino parla di un potenziale di 207,3 GW, ma si tratta di una cifra che va presa con le pinze. Non perché inaffidabile, ma perché si riferisce all’energia che si potrebbe produrre se si collocassero aerogeneratori in ogni area marina ritenuta idonea. In ogni caso, il potenziale c’è. E finora pare che le aziende del settore se ne siano accorte prima ancora del governo italiano. Tra il 2020 e il 2023 le richieste di connessione per la rete eolica offshore sono aumentate di 19 volte, raggiungendo e superando i 100 gigawatt. «Questo non significa che si faranno tutti, ciò che comanda sono gli obiettivi fissati dal governo», precisa Simone Togni, presidente dell’Anev, l’Associazione nazionale energia del vento. E gli obiettivi del governo, infatti, contengono proiezioni a dir poco più caute. Nel Pniec, il Piano nazionale integrato energia e clima, l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni indica un obiettivo di 2,6 GW per l’eolico offshore entro il 2030. La vera crescita, spiega Togni, avverrà nel prossimo decennio, con la capacità complessiva che potrebbe salire a 11 GW nel 2040 e addirittura a 30 GW nel 2050.

Tra le aziende impegnate a portare l’eolico offshore galleggiante in Italia ci sono anche Nadara (ex Falck Renewables) e BlueFloat Energy, che puntano alla costruzione di sei parchi eolici marini: due in Puglia, tre in Sardegna, uno in Calabria. «L’investimento complessivo è di 18 miliardi di euro, per una capacità installata di 5,5 GW che produrrà a regime 18 miliardi di kilowattora all’anno, pari a un terzo dell’energia elettrica che importiamo annualmente dall’estero», spiega a Open Daniele Caruso, project director del partenariato tra Nadara e BlueFloat Energy. Le due aziende stimano solo per i loro progetti un potenziale occupazionale di oltre 20 mila lavoratori e la mancata immissione in atmosfera di oltre 11 milioni di tonnellate all’anno di anidride carbonica. «I due progetti più avanzati sono quelli pugliesi, Odra e Kailia, che sorgeranno a largo di Lecce e Brindisi. Stimiamo di essere pronti a cominciare i lavori nel 2027, per iniziare a produrre energia entro la fine di questa decade», aggiunge Caruso.

L’eolico offshore in Italia e nel mondo

L’Italia, come detto, è uno dei Paesi con più potenziale al mondo per l’eolico offshore galleggiante, che potrebbe dare un aiuto non indifferente al lungo percorso verso la decabornizzazione del sistema energetico. Ad oggi, per esempio, Sardegna, Sicilia e Puglia sono in forte ritardo sugli obiettivi per le rinnovabili fissati al 2030. Quelle stesse tre regioni sono però anche quelle che potrebbero ospitare il numero più elevato di impianti eolici offshore galleggianti. «Questa tecnologia consente di aprire un importante mercato a livello internazionale e il potenziale per l’Italia è enorme», osserva ancora Simone Togni. Con più di 30 GW installati a fine 2022, è la Cina oggi a occupare la prima posizione al mondo per potenza installata di eolico offshore, sia a fondo fisso che galleggiante. Seguono il Regno Unito, con 13,8 GW, e la Germania, con 8,1 GW installati. Questa tecnologia ricopre un ruolo di primo piano anche nel Green Deal europeo, la strategia attraverso cui Bruxelles punta a rivoluzionare la propria economia e azzerare le emissioni entro il 2050. A fine 2023, la Commissione europea ha presentato il suo piano di azione per l’eolico offshore, che punta a rendere più veloci gli iter autorizzativi e sbloccare il potenziale, finora inespresso, di molti Paesi europei.

Un operaio al lavoro in una fabbrica di turbine eoliche a Rudong, in Cina (EPA/Alex Plavevski)

Una filiera da costruire

Al di là degli indubbi benefici ambientali, lo sviluppo dell’eolico offshore galleggiante spalanca le porte a un mercato potenzialmente enorme, al punto che da qualche anno si è iniziato a parlare di come creare una vera e propria filiera. La buona notizia per l’Italia è che questa tecnologia attiva alcuni settori industriali chiave per il nostro Paese. Innanzitutto, la metallurgia: con 21,6 milioni di tonnellate prodotte, l’Italia è il secondo maggior produttore di acciaio tra i Paesi Ue (dopo la Germania). Il nostro Paese è inoltre al primo posto nella produzione di navi e imbarcazioni, una componente essenziale per consentire l’assemblaggio e il trasporto delle pale eoliche. Insomma, a differenza di quanto avviene con il fotovoltaico, lo sviluppo dell’eolico offshore potrebbe contare sul supporto e l’esperienza di alcune aziende italiane leader nei rispettivi settori di competenza. Secondo un recente studio di The European House – Ambrosetti, questa tecnologia attiva cinque settori chiave del Made in Italy (materiali da costruzione, prodotti in metallo, meccanica avanzata, cantieristica, apparecchiature elettriche), che già oggi impiegano 1,3 milioni di lavoratori per un valore complessivo di 255,6 miliardi di euro.

Gli ostacoli

Le difficoltà, in ogni caso, non mancano. «Per rispettare gli obiettivi fissati al 2030, l’Italia avrebbe bisogno di raddoppiare la produzione di acciaio», spiega Simone Togni. Oggi, aggiunge il presidente dell’Anev, «nessun produttore né di aerogeneratorI, né di cavi, né di floater è in grado di fornire le quantità necessarie». C’è poi la questione relativa ai porti, dove viene svolta la maggior parte delle attività di assemblaggio delle turbine. Al momento non esistono porti in Italia con i requisiti adatti per sviluppare un progetto di eolico offshore galleggiante, e l’adeguamento delle strutture costa svariate decine di milioni di euro. Il Decreto Energia del governo punta ad attrezzare due porti, ma secondo gli operatori del settore ne servirebbero «almeno quattro, forse sei». Tra gli altri ostacoli di cui bisogna tener conto ci sono poi l’assenza di una pianificazione nazionale strategica dello spazio marittimo, che è già costata all’Italia un deferimento alla Corte di Giustizia Ue, e la necessità di investire in infrastrutture di rete in grado di gestire il flusso di energia generato dai nuovi impianti offshore. Di strada da fare, insomma, ce n’è ancora parecchia. Ma il potenziale c’è eccome e sarebbe davvero un peccato sprecarlo.

Pale eoliche al porto di New Bedford, nel Massachusetts (EPA/CJ Gunther)

Credits foto di copertina: Dreamstime/Artur Kutskyi

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