Chiara Valerio: «Lo schwa? Come scrittrice non lo uso e penso che sia sbagliato normare il linguaggio»
Chiara Valerio, scrittrice ed editor, ha sfiorato la vittoria al Premio Strega con il romanzo «C’è chi dice e chi tace» (Sellerio). «Sono felice che sia quest’anno che lo scorso, con Ada D’Adamo, lo Strega sia andato a due scrittrici. Anche se io, da omosessuale, mi prendo in giro ammettendo che la differenza di genere non l’ho ancora capita bene», dice oggi al Corriere della Sera. Racconta di essere «nata e cresciuta a Scauri, nella provincia laziale. Più che librerie, intorno a me avevo le edicole, luogo magico perché accanto ai classici, venduti come collaterali ai quotidiani, c’erano riviste come Skorpio , dove il soft porno si mescolava allo steampunk. Quindi io non credo agli steccati tra letteratura alta e bassa . Noi italiani, a parte Manzoni, non abbiamo avuto una grande tradizione di romanzo popolare, ci siamo dati all’opera. Ecco perché il genere, specie il giallo, ha portato una approfondita analisi sociale. Camilleri è stato un grandissimo scrittore e non dimenticherò mai quando mi disse: “Ci sono scrittori da turris eburnea e scrittori da strada, io scrivo in mezzo alla vita”».
La matematica
Spiega a cosa è servito il suo dottorato di ricerca: «La matematica mi insegna a capire i percorsi mentali, e soprattutto mi ha insegnato che nulla è impensabile. Ognuno arriva a delle conclusioni con un cammino personale e questo mi affascina. Per esempio, Michela Murgia arrivava ai concetti attraverso sentieri originali e rigorosi». Ricorda l’amicizia con la scrittrice: «Solo dieci giorni prima che lei morisse abbiamo avuto una delle tante discussioni che hanno costellato il nostro legame. Volersi bene e andare d’accordo non sono la stessa cosa. E io ero spesso in disaccordo con lei, soprattutto nel metodo. Michela diceva le cose a modo suo, veemente, avventato. Però oggi capisco che aveva ragione: quelle cose andavano dette esattamente in quel modo».
Le cose da dire e il modo di dirle
E spiega: «Non esiste un modo più morbido per dirle. Michela ha rivelato un mondo quando ha detto che la vera famiglia è quella queer , ma la sua non era una semplice opinione, era un concetto storico-sociale: prima degli Anni 60 e 70, le famiglie erano un insieme di madri, padri, zie acquisite, parenti che non lo erano per legami di sangue ma per cura e frequentazione. Quante persone, da piccoli, abbiamo chiamato “zia” o “zio” senza che lo fossero? Poi è arrivata una forma di edilizia abitativa che ha deciso che la famiglia mononucleare doveva stare nei bilocali. È qui che nasce la tragedia di Ugo Fantozzi: la sua disperazione non viene dal mega direttore galattico, ma dall’appartamento che si affaccia sulla tangenziale».
Il rapporto con Marcella
Infine parla del suo rapporto con Marcella, che dura da sette anni: «Quando l’ho vista per la prima volta incedere nella luce di Venezia, con i riccioli biondi, mi ha ricordato la Margherita di Bulgakov. Un amore che dura perché lei è intelligente e mi fa ridere. In fondo, per citare Natalia Ginzburg, vale sempre il “Ti ho sposato per allegria”». La conclusione è sull’uso dello schwa: «Come autrice non lo uso e penso che sia sbagliato normare il linguaggio a priori. Siamo la prima generazione che non cerca di definire le cose attraverso la lingua ma che, invece, si lascia definire dalla lingua».