Sharon Verzeni, i giudici su Moussa Sangare: «Il suo stato mentale è integro». La confessione del 29enne: «Il coltello? L’ho sotterrato per ricordo»
Lo stato mentale di Moussa Sangare è integro: troppi gli accorgimenti presi dal 29enne, prima e dopo l’omicidio di Sharon Verzeni a Terno d’Isola, per nascondere le sue tracce. Con queste motivazioni la gip di Bergamo Raffaella Mascarino ha convalidato il fermo nei confronti di Sangare e disposto il carcere, dopo la sua confessione. «Se pure le motivazioni addotte dall’indagato in ordine alla spinta che ha portato a commettere il fatto di sangue può destare qualche perplessità in ordine al suo stato mentale», scrive la giudice nel provvedimento, «nel momento di compiere l’omicidio però la lucidità mostrata nell’adottare tutta una serie di accorgimenti sia nei momenti precedenti al delitto (…) e anche gli accorgimenti dei giorni seguenti evidenziano uno stato mentale pienamente integro». Alla gip, durante l’interrogatorio al carcere di Bergamo, aveva confessato quanto avvenuto quella sera spiegando che non c’era alcuna motivazione particolare: «Non c’era un movente e non so perché l’ho fatto». Una sensazione che non sa spiegare l’avrebbe portato a «voler fare del male». E ancora, Sangare ha anche spiegato perché non ha buttato nel fiume Adda l’arma con cui ha accoltellato Verzeni. A differenza di altri oggetti, come i vestiti della 33enne, il coltello è stato sotterrato nei pressi dell’argine: «Non l’ho buttato nel fiume perché ho pensato che avrei potuto trovarlo ancora lì. Volevo tenerlo per avere memoria di quello che avevo fatto. Come un ricordo». Il giovane, con un passato nella musica, ha inoltre ammesso di aver fatto qualche esercitazione con una statua in un parco di Terno d’Isola. Non era la prima volta che il reo confesso manifestava istinti omicidi: in passato la sorella, Awa, insieme alla madre avevano denunciato tre volte le violenze subite in casa. Ma nessun aiuto è arrivato dal Comune: «Forse se ci avessero ascoltate Sharon sarebbe ancora viva».
Le denunce della famiglia
In un’intervista al Corriere, la sorella di Moussa, Awa Sangare, ha raccontato il passato violento del fratello. «Ho avuto paura di morire anche io. Mio fratello ha tentato di uccidermi. Quello che ha fatto a Sharon poteva succedere a me. Ne sono convinta», dichiara la ragazza che studia all’università a Bergamo. «È stata un’escalation. Io e mia madre Kadiatou abbiamo fatto di tutto per aiutarlo. Non volevamo credere a quello che ha confessato. Con mamma siamo scoppiate in lacrime. Il nostro pensiero va a Sharon e alla sua famiglia», racconta Awa. La famiglia aveva però denunciato tre volte il ragazzo: «La prima nel 2023, l’ultima a maggio. Danneggiamenti, violenza domestica, maltrattamenti. Eravamo in pericolo. Nessuno si è mosso. Sia io sia il mio avvocato abbiamo scritto al sindaco, agli assistenti sociali. I segnali c’erano tutti. Volevamo aiutarlo a liberarsi dalla dipendenza. Ci abbiamo provato: hanno detto che doveva essere lui a presentarsi volontariamente. Non lo ha fatto».
Il cambiamento dopo il viaggio all’estero
Come aveva già raccontato un vicino, Moussa era cambiato una volta tornato dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra: «Nel 2019. Moussa ci ha detto che aveva fatto uso di droghe sintetiche. Non era più lui». All’inizio avevano provato a risolvere tutto tra le quattro mura di casa: «Per qualche anno abbiamo tentato di contenerlo. Nel 2023, ad aprile, mia mamma ha avuto un ictus. La situazione è degenerata: quella notte ha tentato di buttare giù la porta. Voleva i soldi. Tre mesi dopo ha aperto il gas, incendiando la cucina». Poi però erano passate alla carta bollata, anche perché Moussa aveva minacciato di morte Awa: «Abbiamo chiesto aiuto ai servizi sociali e al sindaco. Siamo state lasciate sole».
L’ultima minaccia alla sorella
L’ultimo episodio risale alla primavera: «Il 9 maggio scorso mi ha puntato contro un coltello, prendendomi alle spalle. Ero in cucina, ascoltavo musica con le cuffie. È scattato il codice rosso e il suo allontanamento. Abbiamo scoperto che aveva occupato la casa al piano terra». Ma la sorella lamenta il mancato intervento delle istituzioni: «Non è stato fatto nulla. Forse un accertamento sanitario andava richiesto. Nessuno si è presentato, nessuno ha controllato».
Il Codacons: «Accertare operato di Asl, Comune ed enti locali»
Il Codacons, dopo l’intervista di Awa Sangare, ha deciso di lanciare un appello alla Procura di Bergamo per accertare eventuali omissioni degli enti locali e delle autorità competenti: «Vogliamo capire se, alla luce di quanto riportato dai mess media, vi siano state negligenze da parte delle autorità locali che abbiano in qualche modo contribuito a determinare la tragica morte di Sharon Verzeni». In particolare l’associazione chiede che «venga accertato se l’Asl territoriale, l’amministrazione comunale e gli altri organi competenti siano stati effettivamente informati della pericolosità di Sangare e quali misure abbiano adottato a tutela della famiglia e della collettività, e se siano stati seguiti tutti i protocolli previsti per i casi di denuncia per violenze, maltrattamenti e tossicodipendenza». Da qui l’annuncio dell’esposto alla Procura di Bergamo per chiedere l’estensione delle indagini agli enti locali. La fattispecie di reato sarebbe di «concorso in omicidio volontario premeditato».
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