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Le “teorie pandemiche” dell’intervista di Red Ronnie a Giovanni Frajese

03 Settembre 2024 - 15:48 David Puente
Gli argomenti trattati nel video risultano datati e già trattati da precedenti fact-check

Circola uno spezzone di un’intervista rilasciata dall’endocrinologo Giovanni Frajese a Red Ronnie. I tempi trattati sono quelli della pandemia Covid-19, partendo dalla teoria del “business degli ospedali” che circolava già nel 2020, da noi trattata in un articolo del 2021. Il video prosegue con la vicenda legata alle autopsie, per poi trattare la cosiddetta “cura De Donno”. Il messaggio fornito attraverso il testo presente nella clip («È stata una cosa studiata e organizzata») porta a pensare che l’intera gestione pandemica avesse “secondi fini”.

Per chi ha fretta

  • Vengono riportate delle somme di denaro fornite agli ospedali per ogni ricovero ospedaliero per Covid-19. L’idea è che gli ospedali fossero propensi a ricoverare più pazienti per ottenere più denaro da parte dello Stato.
  • Quelle somme di denaro riguardano tutta una serie di spese giornaliere per la gestione del ricovero.
  • I costi giornalieri non corrispondono a quelli forniti nel video.
  • Si mette in dubbio il motivo che portò a sconsigliare le autopsie, ma che vennero comunque effettuate purché in sicurezza secondo le indicazioni.
  • La “cura De Donno” viene presentata come risolutiva, ma di fatto non lo era.

Analisi

Il video circola con la seguente scritta:

Frajese: E’ stata una cosa studiata e organizzata

Adesso vi dico tutto

La teoria del “business degli ospedali”

La clip condivisa via Facebook, che risulta ridotta rispetto all’intera intervista, inizia con un’affermazione da parte dell’endocrinologo Giovanni Frajese: «Non mi far aprire per favore il capitolo di come hanno trattato degli ospedali questa patologia se non mi arrestano». Ecco il seguito della discussione con Red Ronnie:

Red Ronnie: «Risulta il vero che se uno è ricoverato normalmente riceve dallo Stato 300 euro al giorno credo per un ricoverato, non lo so. Se uno ha il Covid era molto di più, erano 900, ma se uno era intubato erano 8000 euro».

Giovanni Frajese: «Esattamente, 9000».

Red Ronnie: «9000 euro».

Giovanni Frajese: «Erano 2000 se c’era il Covid, se transitavi in terapia intensiva diventavano 9000 al giorno. Pensate un pochettino a che cosa è successo».

Red Ronnie: «Quindi….»

Giovanni Frajese: «Che strano».

Red Ronnie: «No, Falcone diceva seguite il denaro, follow the money, quindi segui il denaro. Allora, chiaramente se io sono un apparato che ha come scopo quello di guarire la gente è una missione obbligatoria, ma se ho come scopo anche quello di guadagnare è chiaro che mi conviene, tu mi arrivi che c’hai il Covid, mi conviene mandarti in terapia intensiva».

Giovanni Frajese: «Chiaro che sì».

Red Ronnie: «Perché prendo 6000 euro in più al giorno, 6000 euro in più al giorno».

I reali costi delle ospedalizzazioni Covid-19

Le cifre riportate non sono un guadagno per gli ospedali. Secondo un’analisi pubblicata nel 2020 dall’Healthcare Datascience Lab (HD-LAB) della Università Carlo Cattaneo – LIUC di Castellanza, la gestione ospedaliera di un paziente Covid-19 riguardano il costo del personale coinvolto nel percorso di assistenza, delle apparecchiature e attrezzature, dei dispositivi di protezione individuale (DPI), delle prestazioni diagnostiche, delle analisi di laboratorio, dei farmaci somministrati al paziente, dei servizi di pulizia e via dicendo.

L’analisi è stata condotta in collaborazione con l’Azienda Ospedaliera Nazionale SS. Antonio e Biagio e C. Arrigo di Alessandria e l’Associazione Ingegneri Gestionali in Sanità. La seguente tabella di HD-LAB riporta i costi relativi alle ospedalizzazione dei pazienti Covid-19 a seconda della gravità. In caso di “alta intensità di cura”, il costo giornaliero si aggira intorno ai 1.278,50 euro. Una cifra estremamente diversa dai 9.000 citati nel video oggetto di verifica.

Come riportato da Quotidiano Sanità, la cifra dei 9.000 euro appare anche nell’analisi di HD-LAB, ma non per indicare un costo giornaliero:

In riferimento invece alla permanenza del paziente all’interno di un reparto a bassa intensità di cura/complessità assistenziale e di un reparto a mediaintensità di cura/complessità assistenziale (terapia sub-intensiva), si riscontra un assorbimento medio di risorse economiche pari a 9.157,00 € (degenza media complessiva: 17,45 giorni).

Quotidiano Sanità riporta anche i costi relativi all’ospedalizzazione tra la terapia sub-intensiva e quella intensiva nel corso di circa 23 giorni di ricovero:

Infine, ingente è il valore economico correlato a una ospedalizzazione spesa tra la terapia sub-intensiva e la terapia intensiva, che risulta essere pari a 22.210,47 €, con una degenza media complessiva di 23,21 giorni.

A trattare l’argomento sono stati anche i colleghi di Facta, i quali citano una stima dell’Instant Report dell’Altems, un report pubblicato il 4 giugno 2020 dall’Alta scuola di economia e management dei servizi sanitari dell’Università Cattolica. Le cifre non sono tanto diverse:

Annotando il numero complessivo dei ricoveri, la percentuale di ricoveri registrati per ogni singola voce della tabella e il costo di ogni singolo trattamento, il rapporto conclude che lo Stato spende 1.425 euro al giorno per ogni singolo ricovero in terapia intensiva, 8.476 euro a paziente per i ricoveri ordinari da Covid-19 (considerando una degenza media di 12 giorni, si tratterebbe di 706 euro al giorno).

I costi sono effettivamente diversi da quelli citati nel video oggetto di verifica. Non si tratta di un premio agli ospedali o un guadagno per chi li gestisce o ci lavora, ma una somma utile a sostenere le spese per le prestazioni fornite ai pazienti.

Gli ospedali hanno festeggiato?

Seguendo la discussione legata ai costi ospedalieri, Frajese prosegue nell’intervista:

Esattamente. Ah ma guarda, gli ospedali probabilmente hanno festeggiato con tutta questa storia perché lavoravano il meno possibile, perché il Covid ha intasato tutto, i vari reparti erano bloccati, non c’era la possibilità di fare le cose, c’erano liste di attesa lunghissime. Si dava priorità a questo su tutto, quindi se eri positivo il Covid prima di un intervento che ti doveva essere magari anche salvavita diventava più importante quello rispetto a qualunque altra cosa.

La narrazione del «lavoravano il meno possibile» non trova fondamento. Gli ospedali si ritrovarono in seria difficoltà, sia per quanto riguarda personale (ulteriormente peggiorata a causa degli operatori risultati positivi al virus e dunque impossibilitati a lavorare in reparto) che strutture idonee a trattare il numero elevato di pazienti. Ne avevamo parlato con il Dott. Pietro Olivieri, responsabile della Direzione Medica di Presidio Luigi Sacco di Milano, nell’intervista rilasciata a Open il 29 ottobre 2020:

Ricordiamo che si parla di un personale sanitario, composto da professionisti, che hanno lavorato in condizioni di contratto anche precarie con stipendi non soddisfacenti, indossando delle protezioni che rendono ancora più difficile il lavoro in reparto. Questo stesso personale ospedaliero, come raccontato dai diretti protagonisti dell’ospedale di Varese intervistati da Open, prestava anche ulteriori servizi alle famiglie per comunicare con i pazienti, nonostante non fossero tenuti a farlo.

Il tema delle autopsie

Secondo quanto dichiarato nell’intervista da Frajese, l’aver sconsigliato le autopsie «significa non sapere niente di medicina»:

Tra l’altro anche lì con una versione fantasiosa per esempio dove erano sconsigliate le autopsie quasi che il virus avesse la capacità di replicarsi in un corpo morto e passare dal corpo morto a chi lo stava esaminando, anche questo significa non sapere niente di medicina, niente.

Fraseje non parla di divieto delle autopsie, smentendo quanto sostenuto da altri personaggi in passato. Tutto nasce da una circolare del Ministero della Salute, la n. 15280 del 2 maggio 2020, dove le autopsie erano possibili a determinate condizioni:

2- L’Autorità Giudiziaria potrà valutare, nella propria autonomia, la possibilità di limitare l’accertamento alla sola ispezione esterna del cadavere in tutti i casi in cui l’autopsia non sia strettamente necessaria. Analogamente le Direzioni sanitarie di ciascuna regione daranno indicazioni finalizzate a limitare l’esecuzione dei riscontri diagnostici ai soli casi volti alla diagnosi di causa del decesso, limitando allo stretto necessario quelli da eseguire per motivi di studio e approfondimento.

3- In caso di esecuzione di esame autoptico o riscontro diagnostico, oltre ad una attenta valutazione preventiva dei rischi e dei vantaggi connessi a tale procedura, devono essere adottate tutte le precauzioni seguite durante l’assistenza del malato. Le autopsie e i riscontri possono essere effettuate solo in quelle sale settorie che garantiscano condizioni di massima sicurezza e protezione infettivologica per operatori ed ambienti di lavoro: sale BSL3, ovvero con adeguato sistema di aerazione, cioè un sistema con minimo di 6 e un massimo di 12 ricambi aria per ora, pressione negativa rispetto alle aree adiacenti, e fuoriuscita di aria direttamente all’esterno della struttura stessa o attraverso filtri HEPA, se l’aria ricircola. Oltre agli indumenti protettivi e all’impiego dei DPI, l’anatomo patologo e tutto il personale presente in sala autoptica indosseranno un doppio paio di guanti in lattice, con interposto un paio di guanti antitaglio.

La circolare prosegue riportando ulteriori indicazioni sulla protezione degli operatori, per poi arrivare al punto 8 che impone una adeguata pulizia della sala settoria con soluzione di ipoclorito di sodio (candeggina) o di fenolo.

Ulteriori indicazioni vennero fornite dall’Istituto Superiore di Sanità, attraverso un rapporto svolto da un gruppo di lavoro formato da diversi esperti come Manuela Nebuloni, direttrice e responsabile di Anatomia patologica dell’ospedale Sacco di Milano. Lei stessa, come riportato in un’intervista del 20 aprile 2020 a Maurizio Viecca (primario di Cardiologia all’Ospedale Sacco), aveva già effettuato «30 autopsie».

Il 28 gennaio 2020, fu lo Spallanzani a riportate delle indicazioni per le autopsie dei deceduti positivi al Sars-Cov-2:

In caso di decesso del paziente, in assenza di chiare evidenze su questo punto, il corpo deve essere considerato come contagioso e come tale trattato con la massima cautela. La mobilizzazione del corpo può causare fuoriuscita di aria dai polmoni e alcune procedure durante l’autopsia possono favorire la produzione di aerosol. Pertanto, gli operatori devono continuare ad indossare i DPI consigliati durante qualsiasi attività sulla salma. L’autopsia è sconsigliata se non strettamente necessaria (ad esempio, per obblighi medico-legali); in tal caso, procedure non invasive, quali ad esempio la biopsia su cadavere, devono essere privilegiate. L’Istituto comunque dispone di un procedura per la medicina necroscopica in caso di pazienti deceduti per patologie altamente contagiose, che va rigorosamente applicata.

Di fatto, il virus non scompare del tutto una volta avvenuto il decesso del paziente. Secondo un articolo pubblicato il 27 marzo 2020 dal Policlinico Gemelli di Roma, il virus poteva resistere «fino a 3 ore nell’aria e fino a 2-3 giorni su plastica e acciaio»:

Le mani sono dunque un’importante veicolo di contagio da non sottovalutare, anche perché il coronavirus che causa la malattia da COVID-19 può sopravvivere per ore o giorni negli aerosol (quindi nell’aria che respiriamo, per questo sono così importanti le misure di isolamento sociale e perché è così importante evitare di ammassarsi su mezzi pubblici e al supermercato) e su oggetti e superfici. Anche dentro casa. Lo dimostra un nuovo studio, pubblicato sul New England Journal of Medicine a firma dei National Institutes of Health e dei CDC americani, insieme alle università di Princeton e della California (UCLA, Los Angeles).

I pazienti uccisi dall’intubazione?

Red Ronnie propone un altro tema:

Red Ronnie: «Tant’è vero che appena hanno fatto, io allora ricevetti un vocale di un medico dicendo,dove diceva, non so se può essere vero, che ma li stiamo uccidendo noi perché aveva fatto un’autopsia e aveva scoperto che non se ne erano andati dall’altra parte, non erano morti per un virus, ma erano morti perché gli avevano bruciato i polmoni intubandoli».

Giovanni Frajese: «Ci sono una serie molto complicate la storia, il problema è che non era una polmonite intestiziale bilaterale come l’hanno scritta per tanto tempo, era in realtà una coagulazione disseminata a livello dell’albero bronchiale, quindi la coagulazione significa trombi che si formano in zone che non hanno ossigeno, è chiaro che se io sparo un ossigeno a una pressione molto importante e non faccio altro che ridurre il lume dei vasi che significa che sto peggiorando la situazione perché in realtà non ho capito per niente che cosa stavano a trattare, infatti si è andati avanti con i paraocchi per tantissimo tempo»

La narrazione coincide con una dichiarazione riportata il 29 luglio 2020 in un articolo de Il Giornale attribuita a Pasquale Bacco:

Il dolo eventuale sta nel fatto che il Governo non ha volontariamente ascoltato voci diverse dal protocollo, non ha ascoltato chi diceva di non sparare ad una certa pressione l’ossigeno puro nei polmoni. Io ho visto quei polmoni nelle autopsie, erano completamente ustionati alla base

Avevamo trattato l’argomento nel 2021, consultando il Prof. Maurizio Cecconipresidente della European Society of Intensive Care Medicine (ESICM), proprio durante il congresso annuale della terapia intensiva dove 6 mila intensivisti di tutto il mondo si erano incontrati anche per discutere su come combattere la disinformazione:

Non ha alcun senso per noi intensivisti. In terapia intensiva ci prendiamo cura dei malati più critici. La sedazione viene utilizzata in maniera mirata per garantire comfort al paziente durante le procedure salvavita che garantiamo. A nome di ESICM Invito tutti a a combattere la disinformazione e soprattutto a vaccinarsi.

Inoltre, il problema delle trombosi erano già note all’epoca, come dimostrato dalle dichiarazioni del Dott. Corrado Lodigiani, Responsabile del Centro Trombosi e Malattie Emorragiche del Gruppo Humanitas, rilasciate nell’aprile 2020:

La correlazione tra malattie di tipo infiammatorie, come per esempio le polmoniti e la trombosi in generale (soprattutto venosa), è nota da decenni; si pensi che un paziente con una qualunque polmonite batterica o virale, quindi non necessariamente da SARS-CoV-2, viene abitualmente sottoposto a profilassi tromboembolica con eparina a basso peso molecolare, in quanto esiste una forte raccomandazione in tutte le linee guida internazionali, allo scopo di ridurre o eliminare il rischio di insorgenza di tromboembolismo venoso, ovvero trombosi venosa profonda. Si tratta della formazione di trombi nel sangue delle nostre vene che in alcuni casi possono provocare l’embolia polmonare, un evento potenzialmente fatale. La profilassi tromboembolica si effettua in genere mediante l’utilizzo di eparina a basso peso molecolare e tale raccomandazione è il frutto di uno studio scientifico pubblicato nel lontano 1999.

Leggiamo le spiegazioni del Prof. Cecconi riportate nel sito di Humanitas nell’aprile 2020:

Nel nostro Ospedale oltre il 75% dei pazienti ricoverati con COVID-19 nei reparti dedicati e il 100% di coloro che sono ricoverati in Terapia Intensiva viene sottoposto a tromboprofilassi, come risulta da uno studio da noi pubblicato proprio oggi. I pazienti con malattie infettive o settiche gravi presentano uno stato di potente infiammazione che attivando il sistema della coagulazione induce uno stato di ipercoagulabilità e li espone quindi a un alto rischio di trombosi. Ciononostante non ci sono evidenze scientifiche che indichino la trombosi come causa unica di accesso in Terapia intensiva.

La “cura De Donno”

Nell’intervista, Frajese riprende una narrazione già trattata in passato, ossia la cosiddetta “cura De Donno”:

La terapia del professor De Donno era l’uovo di Colombo nel senso che era veramente la cosa più banale e semplice che si poteva fare in questa circostanza. Immaginatevi che se a me mi morde un cobra, il cosiddetto antidoto cobra sono anticorpi fatti in un coniglio che probabilmente è morto perché gli hanno messo il veleno del cobra ma ha sviluppato gli anticorpi. Io prendo quegli anticorpi li inietto per esempio a me stesso e guarisco perché l’anticorpo è specifico, quindi prendere gli anticorpi specifici per la patologia in chi ha già avuto la patologia era l’uovo di Colombo perché non esiste fisiologicamente che non funzioni, funziona per qualunque virus dall’ebola in giù proprio perché è specifico l’anticorpo che il mio corpo fa di fronte a una certa patologia, è fatto apposta per quella patologia. Se io sono in grado di prendere quegli anticorpi e di darli ad un’altra persona è una terapia che ha tutto il senso logico del mondo, funziona da sempre su tutto.

La “cura De Donno” si basava sull’utilizzo del plasma iperimmune, che però ha dei limiti. Ecco quelli riportati da Avis:

Perché la trasfusione di plasma iperimmune è considerata una soluzione temporanea?

Risulta molto improbabile pensare di poter guarire tutti i pazienti di coronavirus del mondo attraverso delle trasfusioni di plasma iperimmune che, come detto sopra, deve rispondere a requisiti molto rigidi che non tutti i pazienti guariti hanno. L’obiettivo adesso è quello di riuscire a ottenere dal plasma dei convalescenti delle immunoglobuline, cioè dei farmaci plasmaderivati ricchi di anticorpi da poter sottoporre ai pazienti. Per raggiungere questo risultato, però, occorrono mesi di ricerca.

Oltre ai requisiti, c’era il problema nel recuperare abbastanza plasma per tutti, come spiegato dal collega Daniele Banfi della Fondazione Veronesi a seguito della pubblicazione nel 2021 di uno studio che venne utilizzato per riabilitare la cosiddetta “cura De Donno”:

Per quanto riguarda Sars-Cov-2 l’idea è la seguente: prendiamo il plasma dei guariti e somministriamolo a chi sta male in modo tale che gli anticorpi del guarito riescano a neutralizzare il virus nel malato […] 1)per avere plasma iperimmune devo avere malati. 2) solo il 30% dei donatori risulta idoneo 3) il plasma va somministrato endovena il prima possibile. Più virus neutralizzo e meno saranno i danni. Il tempismo è tutto. […] Veniamo dunque alla realtà: a marzo 2020 ricordate cosa erano gli ospedali? Chi pensa che di fronte a migliaia di morti qualcuno potesse riuscire a produrre plasma iperimmune da somministrare a pazienti nemmeno ricoverati vive su un altro pianeta. In conclusione: nessuna riabilitazione del plasma iperimmune. Può servire nei pazienti ai primissimi stadi di infezione

Purtroppo, la cosiddetta “cura De Donno” non era affatto risolutiva. Poteva dare una mano nelle fasi precoci della malattia, ma con tutta una serie di problematiche per ottenerlo.

Conclusioni

I temi trattati nel video, una parte dell’intervista rilasciata da Frajese a Red Ronnie, risultano datati e già oggetto di fact-check passati. Non esiste alcun business degli ospedali, così come descritto nella clip. Le autopsie vennero fatte, purché in sicurezza, considerata la resistenza del virus al di fuori del corpo umano. La “cura De Donno”, purtroppo, non era la soluzione utile per chiudere con la pandemia.

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