I cellulari ci ascoltano con il microfono? I documenti di una multinazionale Usa riaprono il dibattito

Un documento riservato suggerirebbe l’utilizzo degli smartphone per il targeting pubblicitario. Ma gli esperti rimangono scettici

I giganti dei media ascoltano ciò che le persone dicono vicino ai microfoni dei loro dispositivi. Un sospetto in cui tutti, prima o poi, ci siamo imbattuti e che fino a oggi non aveva trovato effettivi riscontri neanche da parte dei grandi esperti di cybersicurezza. È quanto emerge da un documento di CMG (Cox Media Group), gruppo che unisce radio e concessionarie pubblicitarie, che il sito americano 404 Media è riuscito a ottenere.


L’arma dell’active listening

Il documento, dal titolo “Il potere della voce (e dei microfoni dei nostri dispositivi)”, è in realtà un vero e proprio “pitch” tramite cui CMG sperava di conquistare altri clienti. Tra le righe, secondo quanto riferisce 404 Media, sono chiaramente presenti due informazioni cruciali. In primo luogo i partner di CMG, che comprendono multinazionali come Facebook, Google, Amazon e Bing. In secondo luogo l’utilizzo – di cui nel testo l’azienda sembra vantarsi – del cosiddetto “active listening” (ascolto attivo) per poter gestire e organizzare al meglio gli annunci pubblicitari. Di cosa si tratta? Cox Media Group avrebbe ammesso di poter accedere facilmente alle conversazioni private delle persone – o almeno agli argomenti di cui si tratta – tramite una serie di dati raccolti dai microfoni incorporati nei dispositivi. Televisioni, smartphone e qualunque altro device fungono da vere e proprie pulci-spia in tempo reale che permettono alla concessionaria di creare pubblicità mirata.


Alternative più economiche

Il secondo step è il confronto dei dati vocali registrati e di quelli comportamentali, raccolti tramite il monitoraggio delle abitudini social e delle ricerche online. Da qui CMG individuerebbe clienti potenziali a cui proporre il suo servizio, e di questo seleziona i prodotti che meglio rispecchiano le passioni dell’individuo. Un processo che, in realtà, potrebbe essere svolto anche senza accesso ai microfoni. Ogni dato ricavato dalle nostre navigazioni online sono incamerati da “aggregatori”, che costruiscono un vero e proprio identikit di ognuno di noi: posizione geografica, acquisti effettuati, elementi demografici. Da qui si può risalire facilmente agli interessi, alla rete di contatti e conoscenze e ai loro interessi. Il passo da qui alle inserzioni “target” è molto breve.

Leggenda metropolitana a metà

Parlando al Corriere della Sera, l’esperto di cybersicurezza Riccardo Meggiato ha però escluso l’effettivo utilizzo di “active listening”. Il suo utilizzo, escluso quello invasivo utilizzato dalle forze dell’ordine per sorvegliare le persone indagate, «è e rimane una mezza leggenda metropolitana». Se società di marketing infatti adoperassero strategie simili «violerebbero la privacy degli utenti, in virtù di regolamentazioni come il GDPR». Secondo l’esperto, con “active listening” l’azienda americana si riferiva a «sistemi di trascrizione automatica di messaggi memorizzati su server sconosciuti, dai quali attingere a piene mani dati che raccontano i nostri gusti».

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