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Paderno Dugnano, Riccardo C. ha fatto una strage «per invidia della felicità degli altri»

04 Settembre 2024 - 05:51 Alessandro D’Amato
strage paderno dugnano riccardo c. fabio lorenzo daniela albano
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Il movente del triplice omicidio: in famiglia era «un corpo estraneo pieno di rancore». Il distacco emotivo, l'anestesia affettiva, la mancanza di empatia. E la rabbia per il compleanno del padre come fattore detonante

Un’anestesia affettiva scaturita dal distacco emotivo nei confronti della famiglia. E un’invidia maligna nei confronti della felicità altrui. Mentre Riccardo C. risponde alle domande del Gip sulla strage di Paderno Dugnano gli esperti cercano di spiegare il movente del triplice omicidio. Il 17enne ha ucciso la madre Daniela Albano, il padre Fabio e il fratellino 12enne Lorenzo «senza un perché». Ha detto che si sentiva oppresso in famiglia e che si voleva emancipare. Ma Don Claudio Burgio, che frequenta il carcere minorile Beccaria di Milano da quasi vent’anni e ci ha parlato, dice di aver conosciuto «un ragazzo profondo, lucido e consapevole delle conseguenze di quello che ha fatto per la sua vita. Era fragile, chiaramente provato, frastornato. Ha pianto. Ma non era chiuso: aveva tanta voglia di comunicare».

Il coltello in mano

«Quando avevo il coltello in mano ho iniziato. E da lì ho deciso di non fermarmi. Perché pensavo che sarebbe stato peggio. Non ricordo quante coltellate ho dato a mio fratello. Erano tante», ha detto agli inquirenti. I primi risultati degli esami dicono che le coltellate sono state in totale 68. E la maggior parte sono state rifilate al fratello. Lui l’ha definita «un’esplosione». E ha fornito all’accusa ulteriori elementi per provare la premeditazione: «Avevo già pensato di commettere questo fatto. Non è stata un’idea che ho avuto quella sera. Pensavo che uccidendoli io avrei potuto vivere in un mondo libero. Pensavo che distaccandomi dalla mia famiglia avrei potuto vivere in solitaria. Già la sera prima volevo farlo. Ma non ero convinto». Prima, con il compleanno del padre, non era successo nulla di particolare: «Io e mio fratello eravamo in camera con alcuni amici. Abbiamo giocato con la PlayStation».

«Quando potrò vedere i nonni?»

Le pm Elisa Salatino e Sabrina Ditaranto hanno deciso di ascoltarlo di nuovo. Lui intanto ha spiegato cosa intendeva con l’idea di voler andare in Ucraina: «Volevo vedere da vicino la sofferenza della gente che vive in quei territori. Niente più». Nella sua stanza al Cpa del Beccaria Riccardo C. ha incontrato educatori e psicologi e ha cominciato a leggere i libri che ha preso dalla biblioteca del carcere. Ha chiesto solo una cosa: «Quando potrò vedere i nonni?». Nella telefonata al 112 subito dopo la strage l’operatore gli ha chiesto: «Ma come mai secondo te tuo papà ha fatto un gesto del genere? Aveva dei problemi di salute? Soffriva di qualche malattia? C’erano già dei problemi a casa?» . Riccardo C. ha risposto: «No. Con mia mamma no… no». Poi nessuna parola per qualche istante, solo lacrime.

«Un corpo estraneo pieno di rancore»

Claudio Mencacci, direttore emerito di neuroscienze dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano, con il Corriere della Sera prova a capire cosa è successo: «Quello che fa più paura è il funzionamento a camere stagne. Viviamo in una società in cui esiste la realtà rappresentata, mostrata all’esterno, e poi c’è quella più intima, profonda, in cui magari, come in questo caso, si cova l’odio e la frustrazione e in cui regna la solitudine».

Per il professore «c’è una distanza immensa tra i due mondi che rappresentavano la vita del ragazzo: quello con gli amici, in cui emergevano atteggiamenti e sentimenti positivi, e quello vissuto in famiglia in cui è evidente un distacco emotivo, un’anestesia affettiva che, come emerge dal primo interrogatorio, non avrebbe portato a parole di pentimento ma alla constatazione che nonostante il gesto estremo non fosse “scomparso il disagio”. Si sentiva non solo un corpo estraneo nel suo mondo familiare ma anche pieno di rancore».

La rabbia e il compleanno del padre

Mencacci punta sullo scoppio della rabbia nel giorno del compleanno del padre: «Probabilmente il giovane ha covato una sorta di invidia maligna, un risentimento che si genera verso la felicità e la serenità di un’altra persona, in questo caso il proprio nucleo familiare. Possiamo immaginare che per lui sia stato insopportabile vedere la felicità negli altri ma questo avviene, senza arrivare al dramma di Paderno, in tante famiglie. È un sentimento diffuso in una società come la nostra, sempre più individualista e meno empatica».

Sull’emancipazione probabilmente Riccardo C. «è rimasto fissato nell’idea che la sua libertà potesse partire solo dalla distruzione di tutto. Questo mi porta a una riflessione amara su una generazione di genitori che non facilita il distacco e l’autonomia dei figli, allungando la sua mano protettiva ben oltre l’adolescenza. Si tratta di una protezione che non dà spazio alla libertà, all’indipendenza; genera adulti che non hanno la maturità e gli strumenti per trovare e seguire la propria strada e che faticano a emanciparsi. Per un ragazzo che si sente oppresso, incapace di ribellarsi e mettere in discussione il nucleo di origine, rimane solo la possibilità di isolarsi, senza condividere le proprie emozioni».

I genitori, la responsabilità

Ma Mencacci è cauto quando si tratta di discutere di eventuali colpe: «La responsabilità l’assumiamo nel momento in cui nasce il progetto mentale di avere dei figli e dura tutta la vita. Il tema però è: quali responsabilità ci vogliamo assumere? Sicuramente quella più importante è aiutare il figlio a diventare ciò che desidera, non quello che vorremmo o auspicheremmo per lui. Dobbiamo fornirgli gli strumenti, conformi all’età, perché possa liberamente costruire il suo futuro, lasciandolo di fronte alle proprie responsabilità».

Infine, i social network: «Amplificano i sentimenti più negativi: rabbia, odio, discriminazione. Questa continua sovrapposizione tra reale e virtuale genera nei ragazzi confusione, alimenta l’impulsività e favorisce la desensibilizzazione verso qualcosa che dovrebbe farci orrore, abituandoci al “male”. Dobbiamo riscoprire la magia di stare insieme dal vivo e impegnarci per difendere il nostro “essere umani”: questa sarà una delle grandi sfide della nostra società digitale».

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