Il modello Milano è in crisi? L’urbanista Granata: «Necessaria una fase “detox”, attirare capitali non basta più» – L’intervista

«Sempre più cittadini si rendono conto che più si densifica e si satura il territorio, più si perdono valori ambientali e sociali. E così tutta la città si impoverisce», spiega a Open la docente del Politecnico

La crisi dell’edilizia che ha colpito Milano sarà pure un risultato delle inchieste giudiziarie aperte dalla procura. Ma le conseguenze di ciò che sta accadendo (qui un resoconto più completo) vanno ben oltre la magistratura e rischiano di far finire sul banco degli imputati non un singolo cantiere, ma l’intero modello di sviluppo su cui il capoluogo lombardo ha fondato la propria rinascita a partire da Expo 2015. «Queste inchieste stanno facendo emergere delle crepe in un modello che pensavamo essere solo positivo», spiega in questa intervista Elena Granata, docente di Urbanistica del Politecnico di Milano e vicepresidente della Scuola di Economia Civile, che in passato ha collaborato spesso con il comune, Regione Lombardia e il ministero dei Lavori Pubblici proprio per indagare i cambiamenti sociali del tessuto urbano. Le indagini della procura sui presunti abusi edilizi sono iniziate nella primavera del 2023 e riguardano i processi autorizzativi con cui sono stati costruiti grandi palazzi in città. Una questione puramente tecnica, almeno all’apparenza. In realtà, avverte Granata, «l’aspetto più preoccupante di questa vicenda non è tanto il risvolto giudiziario, quanto quello culturale».


Professoressa, cosa intende?


«Intendo che bisogna avere poco amore per la città per pensare che si possa sostituire un garage con un grattacielo senza pensare agli impatti sul contesto. Milano paradossalmente dovrebbe essere alleggerita, desaturata, avere più spazi vuoti e verdi, per reggere meglio l’urto dei cambiamenti climatici: isole di calore, inquinamento, rischio idraulico».

Che idea si è fatta, da urbanista, delle inchieste che stanno sconvolgendo l’edilizia milanese?

«Il cittadino in questa vicenda vede due cose, solo paradossalmente distanti tra loro. Da un lato, c’è la questione abitativa, con l’aumento straordinario dei prezzi e le famiglie del ceto medio che faticano a stare in città. Dall’altro lato, c’è la città dei cantieri: da Expo in poi è stato intensificato tantissimo lo sviluppo immobiliare e la valorizzazione del suolo. A Milano il suolo ha un valore immenso. Si intensifica l’edilizia, sia in centro che in periferia, perché la rendita è altissima su tutto il suolo comunale».

E questo come si lega alle inchieste della procura?

«Le inchieste della procura non sono nate per caso. Arrivano da comitati di cittadini molto attenti al territorio, che si sono visti costruire dei palazzoni davanti a casa. I costruttori a Milano sono molto attivi, ma la società civile lo è altrettanto. Sempre più cittadini si rendono conto che più si densifica, si satura e più si perdono valori ambientali e sociali. E così tutta la città si impoverisce».

E questo messaggio è arrivato alla politica?

«Solo in parte. Ancora viene accolta con disappunto la preoccupazione per gli impatti sociali e ambientali. Ciò che è arrivato forte e chiaro è invece il messaggio della procura, ma l’aspetto che più dovrebbe allarmarci è quello culturale. Mentre le capitali europee stanno dando una sterzata urbanistica – depavimentano, piantumano e creano oasi climatiche -, Milano va nella direzione opposta.Anche l’aumento dei prezzi delle case è un effetto di questo processo. Una città che valorizza tantissimo ogni brandello di spazio libero e costruisce pure dentro i cortili delle case rende tanto dal punto di vista economico. E la direzione del mercato porta lì».

Il mercato porterà anche lì, ma la politica che ruolo deve avere?

«La politica dovrebbe mediare tra interessi diversi. Rigenerare non può significare solo trasformare una vecchia fabbrica in un grattacielo, ma anche restituire nuova vita e qualità urbana a un contesto che l’ha persa. Nella versione milanese, purtroppo, assistiamo a una semplificazione frequente: rigenerazione vuol dire densificare e costruire in altezza, mentre servizi, verde, spazi pubblici, commercio vengono ridotti al minimo. Lo sviluppo in verticale rende di più dal punto di vista del mercato abitativo, meno da quello sociale. Che lo scelga l’imprenditore mi sta bene, che lo avalli la politica e la cultura urbanistica è più grave».

Le inchieste sembrano essere nate anche per interpretazioni diverse delle leggi sull’edilizia. È così?

«Direi proprio di sì. Fino a pochi anni fa non avevamo strumenti per spingere la rigenerazione urbana. Le leggi regionali nate negli ultimi anni, per esempio la legge lombarda n.18 del 26 novembre 2019, spingono opportunamente l’imprenditore a non costruire il nuovo, ma rigenerare il vecchio. Il problema è che si allentano tantissimo i lacci ed è proprio per quell’ammorbidimento della legge che si rischia di esagerare. Il confine tra rigenerazione, nuova costruzione, ristrutturazione edilizia, ristrutturazione urbanistica diventa molto labile».

Qualche differenza però ci sarà…

«La ristrutturazione edilizia lascia mano libera al costruttore. Ha un abbattimento degli oneri di urbanizzazione, può demolire e ricostruire con diversa sagoma, ha un incremento di volumetrie. La ristrutturazione urbanistica, invece, riguarda quei progetti a scala di isolato e che modificano molto l’assetto precedente e richiedono valutazione degli impatti, standard e piano particolareggiato. La legislazione a riguardo è spesso ambigua e un tecnico comunale fatica a stabilire un confine tra le due cose. Se andiamo in punta di giurisprudenza, potremmo anche arrivare a dire, come sostengono alcuni, che si poteva fare. Ma il punto è che non si doveva fare. La differenza è tutta qui».

Le richieste al comune per nuovi progetti edilizi sono crollati e gli analisti dicono che molti investitori del settore immobiliare stanno pensando di lasciare la città. Che impatto avrebbe questo?

«Io non saluto con favore lo stallo del mercato, perché ci sono dietro famiglie e imprese. Detto questo, credo che una “fase detox” farebbe bene a Milano. In questi anni i cantieri non si sono mai fermati, con Expo 2015 e le Olimpiadi 2026 che sono stati un acceleratore formidabile. Magari perderemo qualche investimento immobiliare, ma può essere anche l’occasione buona per aprire un dibattito fondamentale sul futuro della città: ci piace questo modello Milano? Per come la vedo io, attrarre i capitali non basta. Bisogna tornare ad attrarre persone e talenti e consentire di vivere in città a chi sceglie di farlo».

Le inchieste della procura possono mettere in crisi il modello Milano?

«Lo stanno già facendo. Emergono crepe in un modello di sviluppo della città che pensavamo essere solo positivo. Questa è un’ultima chiamata per la città, un’occasione per tornare a immaginare una città diversa, più inclusiva davvero».

Il Comune ha detto di voler risolvere la questione anche con il nuovo Piano di governo del territorio.

«Me lo auguro, è un’occasione che non possiamo sprecare. Avere regole chiare consente una competizione più sana. Ci sono molti imprenditori che vogliono fare sviluppo immobiliare in modo intelligente e costruendo meno ma meglio. Ci sono esperienze positive in città da cui possiamo imparare».

Per esempio?

«Più di un secolo fa, nel 1917, a New York è stata approvata la più grande legge al mondo sullo zoning (la cosiddetta Zoning Resolution – ndr) per evitare che i grattacieli creassero troppa ombra. I costruttori si sono dati delle regole per consentire a tutti di godere della luce del sole. In Svizzera, invece, oggi vige la regola del semaforo. Nelle zone verdi si può densificare, in quelle arancioni si può fare moderatamente, in quelle rosse è vietato. Impariamo la lezione dai Paesi che amano l’economia: l’economia da sola non basta mai».

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