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La sociolinguista Vera Gheno: «Cultura Woke e schwa servono a mostrare gli invisibili della società»

10 Settembre 2024 - 07:57 Alba Romano
vera gheno schwa cultura woke
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Lei lo usa nei suoi scritti perché la lingua non è un insieme di regole

La sociolinguista Vera Gheno si sente assolutamente woke «però a patto che ci capiamo su cosa si intenda per woke». E sullo schwa dice che «chi vuole usare una soluzione linguistica sperimentale lo può fare, chi non vuole può evitare. Il tema è che all’italiano manca una forma priva di genere che invece esiste, per esempio, in inglese. Quello che ricercano le persone che per una serie di motivi non si riconoscono nella divisione binaria maschile e femminile, non è identificarsi in un terzo genere calderone, ma trovare il modo di omettere questa informazione», dice oggi in un’intervista a Repubblica.

Woke e schwa

Gheno lo usa nei suoi scritti. Perché «ci sono parti della nostra società che a oggi, socialmente e linguisticamente, sono invisibilizzate. Nella comunità Lgbtqia+ ci si interroga da anni su come ritrovare corrispondenza fra la complessità dell’identità di genere umana e ciò che la nostra lingua può rappresentare. C’è una questione che è a monte di tutto questo ragionamento: facciamo un po’ fatica a vedere quello che non fa male a noi, che sia il gradino sul quale si pianta la sedia a rotelle o l’assenza di fondotinta per le nuance più scure di pelle, che può sembrare una cosa aleatoria, ma non lo è se sei una donna nera che si vuole truccare». Mentre la lingua, spiega, «non è solo un insieme di regole, ma un sistema in movimento e il cambiamento linguistico è assolutamente naturale. I femminili professionali, per esempio, al contrario di quanto si crede, sono molto antichi: perfino la Madonna nelle preghiere è avvocata nostra. Ministra c’era già in latino».

Il significato di Woke

Gheno spiega che woke è una parola che deriva da “sveglio”, “resta vigile sui diritti”. E serve a definire in modo radicale un nuovo linguaggio che sia in grado di rappresentare ogni minoranza. «Io non voglio diventare poco comprensibile, per questo nei miei saggi preferisco, quando possibile, usare parole semanticamente neutre, come persona, soggetto, essere umano o nomi collettivi come cittadinanza. Però trovo bello che oggi lo schwa compaia nelle scritte sui muri: ci dice che è un’istanza che parte dal basso», spiega. Mentre quello che viene oggi etichettato con disprezzo come woke «è un mix micidiale di manicheismo fanatico e ignoranza: è ragionevole pensare, come ha denunciato qualche tempo fa Telmo Pievani, che non si possa più dire vicolo cieco o elefante nano? Certo che no. Ma questo per me non è wokismo».

Liberalismo e razzismo

Infine, sul liberalismo americano che si fonda sul razzismo: «Una persona che non è direttamente toccata da una certa istanza, per esempio bianca in un mondo tradizionalmente razzista, può arrivare a riconoscere la parzialità del proprio punto di vista? Per secoli ne abbiamo avuto uno prevalente, dato per unico e universale: uno sguardo bianco, etero, eterocisnormativo, coloniale, abilista, maschilista. Il liberalismo americano è frutto di una visione molto omogenea, forse mancante di quella diversity, cioè della varietà, di cui oggi io sento bisogno. Dobbiamo andare avanti». L’unica via è «mettersi in ascolto senza per forza posizionarsi da una parte e dall’altra, perché alla fine il posto più figo dove stare è spesso nel grigio: il grigio è la complessità».

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