Perché Susanna Recchia ha ucciso la figlia Mia e si è tolta la vita: «Dietro la disperazione di chi vede solo sofferenza»

La bambina soffriva di epilessia. L’arrivo al ponte di Vidor e la malattia psichica

I corpi di Susanna Recchia (45 anni) e di Mia (3) sono stati trovati abbracciati su un isolotto di ghiaia sul fiume Piave, a quattro chilometri dal ponte di Vidor in provincia di Treviso. Lì era stata trovata anche l’automobile della donna venerdì 13 settembre. I cadaveri sono stati trascinati per un chilometro dalla corrente. Susanna Recchia si era allontanata dalla casa di Miane lasciando a casa cellulare e portafogli con i documenti. E una lettera d’addio in cinque fogli. Ma la donna aveva portato con sé alcuni farmaci salva-vita per la bambina, che soffriva di una grave forma di epilessia. La madre invece aveva un disagio psicologico. La procura indaga per omicidio-suicidio. «Vendetta per colpire l’ex? No. Forse dietro c’è la disperazione di chi vede solo sofferenza», dice la dottoressa Alexia Koukopoulos, psichiatra romana.


La storia di Susanna e di Mia

Susanna Recchia viveva a Miane, dalle parti di Valdobbiane nel trevigiano. Nella villetta bifamiliare vive anche sua sorella. Lei era igienista dentale in uno studio dentistico di Moriago. L’ex compagno si chiama Mirko e fa il meccanico. La donna aveva anche altri tre figli di 7, 10 e 13 anni. Vivono con l’ex marito che di mestiere fa il poliziotto. La notte prima della tragedia Susanna ha scritto un messaggio a Mirko: «Vieni a prendere Mia domattina, ti aspetto alle 8,15». Mirko è arrivato puntuale, non ha ricevuto risposta alla scampanellata e nemmeno alle telefonate al cellulare della donna. A quel punto è entrato in casa e ha scoperto la lettera. Susanna parlava della sua sofferenza e del «mondo ingiusto» attorno a sé. «Vi amerò per sempre» e il disegno di un grande cuore è stato l’ultimo messaggio lasciato agli altri tre figli.


Il ponte di Vidor

La donna si è diretta nelle prime ore del mattino sul ponte di Vidor, che in zona ha fama di luogo ideale per i suicidi. I cani molecolari hanno fiutato le sue tracce sulla sponda del fiume, dove si è lasciata scivolare in acqua con la figlia in braccio. Era seguita da un centro di salute mentale di Piave. Secondo gli amici dopo la fine della relazione con Mirko la donna si comportava in modo strano. Ricordano anche il trauma della morte della sua migliore amica in un incidente stradale mentre Susanna era alla guida. Susanna e Mirko si erano separati da un mese.

La malattia psichica

Secondo il procuratore Marco Martani «è evidente che la donna è vittima di quella che viene definita depressione maggiore, una malattia psichica che spesso non dà avvisaglie o quantomeno è difficile da interpretare per i non esperti. Una forma di depressione che fa vedere solo tragedie nel futuro e che, come probabile gesto protettivo, spinge a portare con sé quanti si amano».

La depressione

Koukopoulos, che lavora al Centro Bini per lo studio e la terapia della depressione, dice al Messaggero che la donna può aver ucciso la figlia perché «sbagliando, voleva proteggerla da questa sofferenza futura». Per la psichiatra «quando una donna giunge a un gesto così estremo, molto spesso dietro c’è una sorta di pensiero che quella sia l’unica via di uscita, che non ci siano alternative. Dunque, non si agisce per punire un’altra persona, ma c’è invece una idea quasi salvifica: la sofferenza è tale, la tragedia tale che si pensa che la morte sia migliore della vita. E si ritiene che questo valga anche per il figlio».

La vita, la sofferenza, il bambino

Spesso subentrano queste idee «per le quali la vita è una sofferenza che non può essere sopportata e quindi la madre non vuole che sia affrontata anche dal bambino. Ma non possiamo sapere cosa è conseguenza e cosa è causa. Spesso quando c’è una grande sofferenza psichica, anche le relazioni ne soffrono e ne vengono influenzate». Koukopoulos dice che il meccanismo mentale non è : “se tu non mi vuoi più, io mi uccido, ma non ti lascio il figlio”: «C’è piuttosto un’altra idea: “come può questo bambino andare avanti senza di me?”. La fine di una storia può essere un fattore che in una situazione di sofferenza ti fa vedere ancora più impossibile, difficile, inaccettabile il futuro».

Leggi anche: