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Giustizia minorile, il capo dipartimento Sangermano: «Il carcere non può essere abolito, ma va ridotto allo stretto necessario» – La videointervista

Il magistrato insiste sull'apertura delle comunità: «È la strada che va percorsa. Gli istituti penali non possono diventare discariche sociali»

Gli ultimi sette anni li ha passati a Firenze, ricoprendo il ruolo di procuratore del tribunale minorile. Poi, a marzo 2023, il ministero di via Arenula lo chiama a Roma per affidargli l’incarico di capo dipartimento per la giustizia minorile e di comunità. «Ho riscontrato la presenza la ricorrenza di criticità croniche», esordisce Antonio Sangermano, mentre fa spazio tra le carte sulla scrivania del suo ufficio. Guarda la telecamera e inizia a elencarle: «La sottovalutazione degli effetti deflattivi che il Covid aveva avuto sui reati», poi riespolosi dopo la fine dei lockdown, «la dismissione di importanti compendi di detentivi», come l’istituto penale minorile dell’Aquila e quello di Lecce, e «l’enorme afflusso in Italia di minori stranieri non accompagnati», che oggi sono pari al 47% dell’utenza carceraria minorile.

«È evidente che in quello che dico non c’è nessuno stigma, anche perché uno stigma del genere sarebbe semplicemente ripugnante da un punto di vista etico, ma è un dato statistico», precisa il magistrato. «I minori stranieri non accompagnati sono portatori di special needs, che derivano ovviamente da tradizioni, culture diverse, da politraumatismi. E molto spesso – ciò vale anche per i ragazzi italiani -, dalla poliassunzione di sostanze stupefacenti che si interconnettono a problematiche comportamentali». Il meccanismo «perverso» che Sangermano vede ripetersi «molto spesso» per i giovani detenuti di origine straniera è «uso di droga, spaccio, carcere». Anche per la commistione tra uso di sostanze e situazioni psicologiche delicate è necessario «potenziare al massimo il comparto comunitario. Gli Ipm (istituti penitenziari minorili ndr), e vorrei dire in generale il carcere, non possono diventare una discarica sociale in cui finiscono i derelitti e le persone che hanno problematiche psichiatriche magari non diagnosticate o sono assuntori di sostanze stupefacenti».

Sentenzia: «Tutte le volte in cui c’è un’alternativa al carcere che garantisca la sicurezza sociale e il finalismo rieducativo della pena in una comunità è quella la strada che va percorsa». Sarebbe un passo per decongestionare i 17 Ipm attivi oggi in Italia, che ospitano quasi 550 detenuti a fronte di 496 posti. Le comunità accreditate, invece, sono centinaia, «ma il fabbisogno è di gran lunga superiore: c’è un’ampia area in crescita del disagio psichico, che non va assolutamente sottovalutata, anche perché ricordo a me stesso che il malato si cura. E questo è il compito di una società civile». Secondo Sangermano, inoltre, è sbagliato tentare un’omologazione tra il minorile e il diritto penitenziario ordinario. «Il minore è minore, non deve neanche essere rieducato, deve essere educato, perché molto spesso questi ragazzi non hanno nemmeno un principio di educazione».

Impossibile, però, da annoverare Sangermano tra chi chiuderebbe gli Ipm. Innanzitutto perché ritiene che «il carcere verrà abolito quando non ci saranno più crimini, cioè mai. Il crimine nasce con l’uomo, con Abele e Caino». Poi, aggiunge, «permettetemi di citare Fabrizio De Andrè. Il dolore degli altri è sempre un dolore a metà, e allora per comprendere che cos’è il reato bisogna immaginare che venga subito su se stessi o sulla persona amata, una persona di famiglia. Allora quando ci si trova di fronte a una violenza sessuale, a un omicidio, a una rapina in casa, a reati efferati, a volte come lo stalking, con l’acido gettato in faccia a una donna, e quindi delitti di genere che sfociano nelle lesioni permanenti, nella sfigurazione di un essere umano, mi domando quale misura possa essere in astratto, naturalmente, adeguata. Quello che noi possiamo fare è ridurre il carcere allo stretto necessario e umanizzare il carcere, inverando al massimo il finalismo rieducativo della pena».

Rendere il carcere residuale ai casi di elevata pericolosità sociale è la sintesi a cui ambisce Sangermano. Mentre, in molti casi, il primo approccio potrebbe essere la comunità. Ciò detto, quando gli raccontiamo le storie dei protagonisti del documentario Giudizio sospeso, il primo docufilm di Open, spiega: «Io per cultura non sono un giustificazionista e non credo al principio della regressione all’infinito delle cause né alla socializzazione e condivisione anonima delle responsabilità. Io credo che le responsabilità personali non debbano essere annullate, giammai, ma che un uomo, un essere umano, non è incapsulabile nella colpa o nella presunta colpa che si ritiene abbia commesso o che abbia commesso. Questo vale di più per un ragazzo. Quindi noi abbiamo il dovere morale, etico di prendere in custodia questi ragazzi e di costruire per loro un percorso educativo che si nutra di diritti, certamente, ma anche di una sana introiezione di doveri, che sono l’altra parte dei diritti, quella solidaristica e proiettata verso il bene dell’altro e non solo narcisisticamente attenta a tutelare le proprie prerogative. Perché una società senza diritti, ma anche senza doveri, è una società autoritaria».

Gli Ipm, stando all’esperienza di Sangermano, funzionano non tanto e non solo quando puniscono, ma quando aiutano a «mentalizzare», cioè a «comprendere il disvalore dell’errore che si è compiuto, sempre avendo davanti a sé una prospettiva esistenziale di crescita, di libertà, di integrazione, di amore, di accoglienza, di confronto e di rispetto della vita». Negli anni in servizio da magistrato requirente, purtroppo, Sangermano ha visto deflagrare quella che definisce la «teologia della forza». La forza come misura di tutte le cose: «I suoi epifenomeni sono la violenza, come capacità di imporsi sull’altro mediante la coercizione fisica e la prevaricazione, la ricchezza, come volontà di escludere dall’alveo degli eletti chi non ha le effigi del benessere economico, e la bellezza, come dato estetico discriminante che pretende di escludere chi non è dotato dello stigma della gradevolezza estetica. Quindi questa idea utilitaristica e nichilistica della vita che individua la forza come parametro di tutte le cose porta – sempre più frequentemente – a commettere il reato».

E poi, naturalmente, esiste «l’accanimento sui diversi, quindi sui diversi orientamenti sessuali, gli accanimenti razzisti o anche abilisti. Tutto questo fa molto riflettere su questa idea della forza che viene rilanciata dalla rete e che diventa lo specchio di fronte al quale il giovane agisce per vedersi in azione. Lo specchio purtroppo è in carne ed ossa, è una persona vulnerabile, che diventa lo strumento per rilanciare un’immagine di predominio. Poi è chiaro che c’è una vulnerabilità anche in chi agisce il fatto, ma anche qui non dobbiamo fare l’osmosi impropria, perché un conto è l’aggressore e un conto è l’aggredito. Se esiste la vulnerabilità dell’aggressore, ed esiste sicuramente, però non può essere messa sullo stesso piano di chi subisce il reato patendone le conseguenze».

Sangermano torna sul tema delle nuove figure sociali da inserire all’interno degli Ipm, come gli etnopsicologi, «perché un conto è parlare con un ragazzino di Milano e un conto è parlare con un ragazzino che viene dal Ghana o che ha attraversato il Mediterraneo vedendo morire la sorella, la madre». Infine, il capo dipartimento insiste sul profilo della responsabilità di chi è entrato nelle maglie del sistema penale. «Il senso del dovere produce una maieutica esistenziale. Questi ragazzi devono uscire dall’Ipm avendo ben in testa che se vogliono essere cittadini di questo Paese si devono ritenere portatori non dei sacrosanti, inviolabili diritti e basta, ma anche dei correlativi doveri».

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