Al festival di Open il documentario di Open «Giudizio sospeso». La giudice Tomai: «Il carcere per i minorenni? L’extrema ratio»

Il cappellano del carcere Beccaria e fondatore della comunità Kayros e la presidente del tribunale minorile di Bologna Gabriella Tomai hanno affrontato il tema della criminalità minorile

Nel tardo pomeriggio della prima giornata del Festival di Open è stato presentato in anteprima il documentario «Giudizio sospeso», che porta la firma dei giornalisti Alessandra Mancini e Felice Florio. Un viaggio nel mondo di quei giovani che si sono trovati a dover fare i conti con la giustizia prima dei diciotto anni. E che ora stanno compiendo un cammino di reintegro nella società. Perché «non esistono ragazzi cattivi», come recita il motto della comunità per adolescenti Kayros, fondata alle porte di Milano da don Claudio Burgio. Il cappellano del carcere minorile Beccaria è stato protagonista insieme a Gabriella Tomai, presidente del Tribunale per i Minorenni di Bologna, di un confronto con i due autori del documentario. «La giustizia non può prescindere dalla persona», ha aperto così il suo intervento Tomai.


La persona al centro del processo

«Questi ragazzi sono i nostri ragazzi. Il reato, che per noi è un fatto negativo, può essere l’opportunità di ricominciare». La presidente del tribunale minorile di Bologna si è poi soffermata sul sistema giuridico minorile, che a suo parere è già un buon esempio nel suo essere imputato-centrico. «Il minore è al centro del processo, con il suo diritto principale: avere una possibilità di felicità. Hanno bisogno che gli si restituisca la fiducia nella possibilità di essere felici. Noi siamo abituati a dire chi ha ragione e chi ha torto. Ma dobbiamo avere a cuore ill minore tanto quanto la vittima. Dobbiamo stare dalla parte di tutti, sospendere il giudizio».


Don Claudio Burgio porta invece la sua esperienza delle ultime settimane nel carcere Beccaria. Giorni in cui il cappellano ha spesso parlato con Riccardo, il 17enne di Paderno Dugnano che a fine agosto ha ucciso i genitori e il fratellino. «Avevo di fronte un ragazzo di buona famiglia, che non c’entra nulla con l’immaginario del carcere», questa la descrizione del giovane. «Eppure ha commesso reato gravissimo. E non capisce nemmeno lui il perché di un’azione così tremenda, non si capacita. Ma è lucido e ne comprende le conseguenze. Ha chiesto aiuto, ha chiesto cura». Ma guardare i giovani non deve significare «assolvere, giustificare o minimizzare la gravità». Secondo Burgio, però, il problema è che «il carcere è violento per sua stessa natura. Il ragazzo dentro al carcere non capisce che quello è un luogo rieducativo». E così viene meno lo scopo dell’istituto penitenziario.

Problemi strutturali e identitari

Per i minori, però, ci sono vari dispositivi alternativi. La detenzione domiciliare così come il collocamento in comunità. «L’istituto penale per i minorenni deve essere l’extrema ratio», sostiene la magistrata Gabriella Tomai. «Deve essere l’ultima misura da applicare, proprio quando non se ne può fare a meno. La detenzione carceraria non fa bene al minore, ed è molto più difficile così gestire percorsi di risocializzazione.  Quando il minore ha finito di espiare a sua pena, deve essere un cittadino più consapevole di prima». Ma ci sono numerose criticità a livello sistemico. Il sovraffollamento (secondo il Ministero della Giustizia sono 531 i detenuti minorenni a fronte di 496 posti disponibili), la penuria di risorse, la mancanza di personale.

Ma nei ragazzi, spiega don Burgio, ciò che più spesso si riscontra è una vera e propria crisi identitaria. «I ragazzi son analfabeti dal punto di vista emotivo e sentimentale. Appaiono molto frammentati dentro, non sanno chi sono, non hanno idea del futuro. La parola “paura” li inquieta, è quasi impronunciabile. E quindi vivono nel presente, schiacciati da una vita che li costringe al consumo, pur di esistere. Il reato è la conseguenza estrema di una vita che non ha senso, è solo la punta dell’iceberg». Se poi si sentono criminalizzati, «è ancora più difficile che escano da quello sguardo». E qui si annida una seconda problematica. La crisi identitaria deriva dalla frattura tra mondo adulto e mondo giovanile. «Se io non mi sento guardato, se il mondo adulto da me vuole solo risultati… io “non ci sto dentro”, così dicono loro. E a un certo punto sconfino. Ma ha tutto radice nella questione identitaria: chi sono io?», spiega il cappellano del carcere Beccaria. «Non siamo ancora entrati con loro nel mistero profondo della vita, che è domanda che esige risposta. Ci siamo limitati a dire loro che sarebbe andato tutto bene. Oggi l’adulto non è più contestato come una volta, ma è diventato irrilevante. Non mi dà il senso e il significato del vivere e del morire». A queste parole fa eco la magistrata Tomai: «Per educare un bambino ci vuole un villaggio. Forse è arrivato il momento di farsi delle domande sul villaggio… I ragazzi respirano un’aria, la nostra, che è un’aria di scarsa relazione positiva». Per un futuro migliore, per educare i nostri figli – chiosa Gabriella Tomai – «abbiamo bisogno di mani, abbiamo bisogno di cuori».

Il documentario «Giudizio sospeso»

Tre ragazzi. Nomi, origini, storie diverse. Tutti e tre incamminati sulla stessa strada: un lungo percorso rieducativo per comprendere a fondo gli errori commessi. Carcere o vita in comunità, Napoli o periferia di Milano. Giovani che percepiscono un vuoto dietro di loro, che si sentono abbandonati dagli adulti, non ascoltati, distanti. Lo sguardo è sempre rivolto in avanti, al futuro. Perché la loro vita è sempre e comunque alle sue battute iniziali. Ma quel futuro non sempre significa andare avanti. A volte, come racconta Endryw, significa «fare un passo indietro, tendere la mano e dire “mi dispiace”». Perché il reato è solo una parte del ragazzo, un fatto che c’è ma dentro il quale non si può limitare la persona. «Bisogna sempre guardare il ragazzo non solo per quello che è stato o è, ma anche per quello che può diventare», è una frase che spesso – in varie forme – torna nelle parole di don Claudio Burgio. Forse cadranno ancora, neanche loro possono saperlo fino in fondo. Ma nei loro occhi rimangono la speranza, la paura, i sogni di tutti i giovani. Il desiderio di una libertà persa, e che solo ora capiscono che sapore ha. Ed è per questo che chiedono, a chi li guarda da fuori, di fare un semplice gesto. Epoché, sospendere il giudizio. E guardare.

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