Festival di Open, Dargen D’Amico: «Il mio appello a Sanremo per il cessate il fuoco? Non è servito a nulla»
Il rap arriva anche al Festival di Open. Nel panel di venerdì sera dedicato alla musica sono saliti sul palco i rapper Dargen D’Amico e Willie Peyote. Con loro Paola Zukar, produttrice – tra gli altri – di Fabri Fibra e Marracash, e il giornalista Claudio Cabona. I temi trattati però hanno avuto poco a che fare con l’intrattenimento. A partire dalla censura, l’argomento del primo numero della rivista «Testi espliciti», curata da Zukar e Cabona. Una monografia con una lunga serie di contributi e interviste dalle personalità più disparate: da Baby Gang a Gué Pequeno nel rap, a giornalisti come Cecilia Sala e Milena Gabanelli. Ma anche don Claudio Burgio, che nella sua comunità Kayros sfrutta spesso il rap come sfogo per chi sta compiendo un cammino di reintegro nella società. «Don Claudio – ha spiegato Paola Zukar – ha usato il rap come scudo, per far sentire liberi i ragazzi in un percorso rieducativo».
Il rischio della censura e dell’auto-censura
«Il rap è un genere estremamente libero, controverso, provocatorio», ha continuato la “signora del rap”. «Alle volte anche fastidioso e abrasivo. Ha in sé molti elementi che possono disturbare, che creano attorno a sé un dibattito. E la censura vuole intervenire subito, appena qualcosa non torna. Ma l’arte non è mai censurabile». Alla sua descrizione si accoda subito il giornalista Cabona: «Noi riteniamo la censura un atto dall’alto verso il basso, “io ti impedisco di parlare” e questo ancora esiste. Oltre a questo aspetto, c’è una forma di censura che ha a che fare con l’evoluzione del rap. Quella orizzontale, che arriva dallo stesso artista. C’è chi per provare ad arrivare in alto si auto-censura, preferisce evitare di esporsi su determinate questioni o argomenti. Per una forma di accettazione, di interesse economico».
Ma la censura a volte funziona al contrario. A raccontarla è il cantautore e rapper torinese Willie Peyote: «Non mi sento immune dall’auto-censura. Non nel senso che mi limito per dire qualcosa che possa piacere di più, ma mi limito per evitare che una certa parte della popolazione si incazzasse». E poi lascia lì una battuta sul presunto politicamente corretto: «Siamo nel mezzo di una rivoluzione culturale. Certe parole non si possono più dire, non si devono più dire. Altre vanno pesate di più. Allora il problema è: posso provocare su certi temi? Non su tutti. Non scrivo su tutto ciò che mi passa per la testa, cerco di evitare le shitstorm soprattutto quando il fuoco è amico. Ma se oggi devo pagare il conto per qualcosa che ho detto in passato, lo accetto perché stiamo andando verso un linguaggio davvero inclusivo. Ovviamente qualcuno ci rimane in mezzo, ma le rivoluzioni funzionano così».
Dargen: «Sanremo? Non lo rifarei»
Poi tocca a Dargen D’Amico, milanese con una lunga carriera alle spalle che ha spopolato con il suo ultimo successo di «Onda Alta» a Sanremo 2024, ma ancora prima con «Come si balla» nel 2022. Occasioni, soprattutto quella dell’ultima edizione, in cui la performance è stata discussa per la sua portata di denuncia per quanto riguarda il conflitto in Medio Oriente. Eppure, confessa alla vicedirettrice Serena Danna, «Sanremo non so se lo rifarei, perché non sono più la stessa persona. Ma è cambiato il tempo nel quale viviamo: al tempo sentivo forse la mancanza di equilibrio nel racconto di ciò che avviene nel mondo, e questo non rendeva giustizia ai più deboli. Adesso invece vedo che anche se il racconto dei più deboli è comparso sui media, i grandi se ne fregano e rimane anche l’anestesia generale».
La politica e il rap, due corde che spesso si sono intrecciate. E ora che il rap è considerato genere alto? Soprattutto dopo il premio Pulitzer al cantante americano Kendrick Lamar e il premio Tenco a Marracash. In realtà, puntualizza Zukar, «il rap nasce un genere spensierato e leggero, da festa. Non nasce propriamente politico, è sempre stato più popolare e sociale. E lo è davvero: mediamente parte da persone che possono avere una bassissima scolarizzazione ma che sono sempre scaltri come parole». Mentre adesso, ormai, è mainstream. «È molto facile iniziare, basta un amico che ti fa le basi e un microfono con cui registrare. È aperto a 360 gradi, e questo è una cosa più che positiva. Ma è anche di moda, e questo non è positivo. Perché un po’ tutti provano a confrontarcisi per moda, per diventare famosi. Ed è un effetto collaterale».
Il rap tra violenza e racconto della realtà
I testi rap si trascinano dietro anche la cattiva fama di essere rudi e ispirare i più giovani alla violenza. Armi, sessismo, una rappresentazione lontana dai valori di oggi. Willie Peyote non è d’accordo: «Scarface è la causa per cui la gente entra a far parte di gruppi organizzati? Sicuramente esiste la pericolosità di scimmiottamento, ma se un film, un libro, una canzone racconta la realtà… non può essere più pericoloso della realtà stessa. Il rap nasce nei quartieri neri come genere per dimostrare che ce la si può fare, come modo di tirarsi fuori da una situazione drammatica». E afferma: «Il problema è la realtà, non la canzone che la racconta».
Ed è l’altro rapper sul palco, Dargen, a rincarare la dose. «Andrebbe indagato perché alcuni ragazzi hanno come unica soluzione quella di rafforzare i propri testi, censurando alcuni sentimenti perché poco potabili. Perché manca l’odio, manca la violenza. Non dovrebbero essere stimolati a censurare l’odio che raccontano, ma a cantare l’amore che non raccontano». «La politica usa spesso questi temi come armi di distrazione di massa – aggiunge Claudio Cabona. «Prendono di mira i testi ma non affrontano i problemi effettivi». Per dirla con don Burgio: La realtà non fa schifo perché c’è Baby Gang, ma c’è Baby Gang perchè la realtà fa schifo. E per Paola Zukar è centrale il ruolo dei genitori: «I ragazzi che entrano in contatto con i temi duri del rap, si spera che abbiano un adulto vicino che riesca a contestualizzare i contenuti a cui è sottoposto. Perché lo scroll dei social media è un po’ una roulette russa».
Molti dei nuovi rapper, come l’ormai celebre Baby Gang, sono immigrati di seconda generazione. Ma cantano di esclusione. «Il problema vero è quello della cittadinanza», sostiene Willie Peyote. «Cosa che Baby Gang fa venire a galla con grande violenza. Una incongruenza sociale che rende i suoi testi molto più politici di quanto sembri. E anche il fatto che le sue parole non sono totalmente comprensibili lo rende ancor più di rottura». «Chiedere gentilmente la parola non ti rende ascoltato», chiude l’argomento Dargen.
Il dissing tra Fedez e Tony Effe? «Sono scarsi»
E poi è il momento, in chiusura, del chiacchieratissimo dissing tra Fedez e Tony Effe. Ma gli ospiti preferiscono andare oltre. «Sono scarsi», è il rapido giudizio di Cabona. Invece per Paola Zukar non sentirlo «sarebbe stato meglio. Ma nulla deve essere censurabile nell’arte. Eppure tanti meccanismi, tanti stilemi del beef non sono comunque conosciuti. Si pensa ci siano regole non scritte. Non puoi tirare in mezzo i bambini, i figli… ma perché?». E arriva puntuale la battuta tagliente di Dargen: «Guarda Israele». Applausi dalla piazza. E poi il rapper continua: «Io ho fatto molti dissing nei confronti di me stesso, nel senso che mi sono rimangiato quello che pensavo e dicevo. È importante entrare con una certezza e uscire con un dubbio».
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