Festival di Open, l’attivismo sul palco di Open. Carolina Capria: «Se ti insultano online, vuol dire che devi continuare a parlare»

Al Festival di Open anche il divulgatore climatico Andrea Grieco: «Molti pensano che stare sui social ti permetta di raggiungere l’intero mondo con un click… non è così»

«Bisogna tornare a umanizzare le persone sui social», è questo l’allarme che il digital creator Andrea Grieco, divulgatore e attivista sui social, ha lanciato al Festival di Open. Insieme a lui, sul palco è salita anche Carolina Capria, autrice di romanzi per l’infanzia e l’adolescenza e anche lei con un ampissimo seguito su Instagram (149mila follower). Gli ambiti sono molto differenti: il primo nell’ambito climatico, la seconda in quello del femminismo. Ma sono numerose le esperienze che li accomunano. A partire dal desiderio di sensibilizzare sui temi che stanno loro a cuore, spingendo però le persone ad «andare oltre», ha spiegato Capria.


Il vero attivismo «non può limitarsi ai social»

L’ha scritto una femmina, questo il nome della pagina che ha fatto diventare celebre Carolina Capria sui social. Lo scopo, ha spiegato la 44enne, era aprire un dibattito. «È una frase che mi sono sentita dire tantissime volte. Soprattutto dai maschi nelle scuole: “È noioso, perché ha scritto una femmina”». Uno stereotipo che rimane vivo anche nel mondo degli adulti. Ed è qui che deve inserirsi l’attivismo digitale. Che ha i suoi lati positivi e le sue pericolosità: «Ci sono meriti nell’attivismo digitale: raggiungere persone che non sarebbero arrivate a quegli argomenti. Online si può trovare uno spunto per una ricerca che poi deve andare oltre. E questo è il lato negativo: credere che ci si ferma a quello che si vede. Invece bisogna andare oltre: bisogna cercare nelle persone, nei libri, nelle piazze, nella realtà».


«L’attivismo – ha aggiunto Grieco – porta una democratizzazione della protesta, perché tutti partecipano in maniera attiva. Sui social è servito a far uscire i messaggi dalle famose bolle, quelle sociali e digitali in cui siamo immersi, e farli arrivare a chi altrimenti non li avrebbe incontrati». Per rompere quelle bolle, l’arma migliore sono i trend. «Ho sentimenti contrastanti a riguardo», ha ammesso l’attivista climatico. «Se si rompe la bolla, fa piacere perché significa che il messaggio va avanti, è recepito, non è andato solo chi è già avvezzo ad ascoltare quei temi. Dall’altra parte, però, arrivano orde di violenti: il cosiddetto “cyberbullismo”, il leone da tastiera che arriva sulla tua pagina e ti insulta. Se ti sputano addosso, significa che di quel tema bisogna ancora parlare». E più si tratta di temi delicati e sociali, ha spiegato Carolina Capria, «più le persone si sentono autorizzate a dire la loro. Ti arrivano delle valanghe di cose orribili addosso. All’inizio ci rimanevo male e provavo a creare una discussione, da qualche tempo mi sono chiusa ed evito di leggere. Mi dispiace perché mi impedisce la condivisione e il dialogo con chi lo vuole davvero. È una enorme privazione, ma è il mio modo di mantenere la serenità».

Il pericoloso effetto eco

Il problema, secondo Andrea Grieco, è duplice. Da una parte, le piattaforme non sono sufficientemente regolamentate: «È come un paese che ha delle norme che si autofornisce. Chi decide cosa è giusto e cosa è sbagliato? Manca una normativa che dica cosa è giusto e cosa è sbagliato fare o dire sui social». Dall’altra, è un tema umano, di «imbruttimento e appiattimento culturale». Il processo è quello delle echo chambers: sui social media gli utenti seguono ciò che a loro interessa. Per questo sentono e risentono le loro convinzioni, diventando meno disposti al dialogo. «Pensano che stare sui social ti permetta di raggiungere l’intero mondo con un click… non è così».

E così, come nella vita reale, anche gli stereotipi si ripresentano su Instagram e TikTok. «Gli stereotipi e i pregiudizi che ci sono nel mondo vivono anche nei social», ha raccontato Carolina Capria. Dall’idea che le donne non si possano occupare di alcuni argomenti, fino alla delegittimazione del tema attraverso l’aspetto fisico dell’attivista. «Colpiscono quello che dicono e quello che fanno. Ed effettivamente non è stupido farlo, perché l’aspetto è ancora un tallone d’Achille per le donne. Sei in difficoltà perché ti senti toccata in un aspetto fragile». Ma è proprio nel sottolineare l’imperfezione dell’altro che l’attivismo muore: «Cercano di coglierti in fallo, ma è una giustificazione per rimanere fermi. Se neanche l’attivista è perfetto – pensano – io sono legittimato a incrociare le braccia, tanto il mondo va così». L’appello di Grieco arriva puntuale: «Bisogna tornare all’umanizzazione delle persone dietro allo schermo».

Un linguaggio per connettere tutti

Carolina Capria, con il suo account, è stata protagonista di una iniziativa di grande successo. All’indomani dello stupro di Palermo ha creato il trend #yesallwomen in cui ha ripubblicato anonimamente le storie di molestie che donne e ragazze di tutta Italia le inviavano. «È una esperienza nata per caso, da una mia storia. Ho ricevuto decine di messaggi. È come se si fosse rotta una diga, c’era una voglia di raccontare silente ma devastante. Leggere quelle cose all’inizio è stata una botta: avessi potuto sarei andata a dare fuoco alla città». E molte, ha aggiunto, erano storie di abusi familiari su minori. E più si sente raccontare, più la gente è invogliata a raccontare. «Me l’hanno detto in molti: “Leggendo mi sono resa conto che sono cose successe a me, ma che non avevo identificato come molestie”». 

Per comunicare con gli altri si deve però riuscire a connettersi. «È fondamentale un linguaggio asciutto: più è semplice, più persone raggiungo. Altrimenti rimango nel mio limbo», ha detto Grieco. Altro imperativo è evitare in tutto e per tutto l’aggressività: «Il nostro atteggiamento non rimane mai tale, ma innesca un atteggiamento negli altri». Anche per Capria il linguaggio è cruciale: «Tutto nasce da lì, crea il nostro immaginario, ti permette di chiamare le cose con il loro nome e individuarle per quello che sono». E quindi è per questo che un modo di esprimersi inclusivo rimane un obiettivo da perseguire: «Se chiudi gli occhi e dici “immagina un ministro”, non ti immaginerai mai una donna. Il linguaggio rispettoso rientra nel metodo femminista: fare femminismo significa applicare un metodo nella vita. Che implica in primo luogo gentilezza. Fare un lavoro sul linguaggio significa mettersi in ascolto dell’altro».

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