Macron svolta a destra col nuovo governo Barnier. L’analista Krpata: «Francia più debole nella Ue ma ora può collaborare con Meloni» – L’intervista
Trentanove tra ministri e sottosegretari, una chiara impronta di centrodestra segnalata nel modo più evidente dall’insediamento del gollista Bruno Retailleau agli Interni. Dopo due mesi e mezzo di impasse politica si è chiusa (forse) la saga della ricerca di un governo per la Francia di Emmanuel Macron: sabato sera l’Eliseo ha svelato la lista dei ministri, e oggi il premier Michel Barnier ha riunito la sua nuova squadra un primo Consiglio dei ministri lampo. Avrà ora una settimana di tempo per disegnare un programma di governo in grado di attrarre una maggioranza di voti il 1° ottobre in quel Parlamento uscito “balcanizzato” dalle elezioni anticipate di fine giugno/inizio luglio. Un’Assemblea nazionale dominata dalle sinistre del Nouveau Front Populaire (Nfp), che restano però clamorosamente escluse dal nuovo esecutivo, ma anche dal Rassemblement National, il cui appoggio esterno sarà ora decisivo per consentire la nascita del governo Barnier, formato in gran parte da esponenti del blocco centrista fedele a Macron, dei Républicains (gollisti) e da indipendenti di orientamento conservatore. Come e quanto potrà navigare il nuovo governo? E che voce avrà ora la Francia nella nuova Ue che vede nelle stesse settimane comporsi il suo nuovo organigramma di potere? Lo abbiamo chiesto a Marie Krpata, ricercatrice all’Istituto francese di relazioni internazionali (Ifri) e specialista di relazioni franco-tedesche.
Macron ha dipinto nelle scorse settimane la scelta della svolta a centrodestra, con l’esclusione da ogni ruolo del Fronte Popolare, come l’unica strada possibile per consentire la nascita di un governo capace di ottenere la fiducia. È così?
«Se è vero che Macron aveva deciso di indire elezioni anticipate per chiarire il paesaggio politico in Francia, dobbiamo considerare oggi che non c’è davvero riuscito perché in effetti il governo appena nato non riflette la scelta degli elettori: dalle urne erano emersi vincitori al primo turno il Rassemblement national, al secondo il Nfp e perdenti i Républicains. E i partiti di centro hanno beneficiato solamente del fronte repubblicano al secondo turno. Quindi sicuramente molti elettori non si ritrovano nel nuovo governo. C’è chi parla di elezione rubata, chi di dimissioni del capo di Stato. Jean-Luc Mélenchon ha già promesso di avviare la procedura di destituzione, e penso che ci saranno molte contestazioni».
Anche a rischio di vedersi nuovamente infiammare le piazze, come già è stato dopo l’approvazione della contestatissima riforma della pensioni?
«Certamente c’è grande disaffezione tra gli elettori, che si diranno in queste ore – penso soprattutto agli elettori dell’Nfp – “Ma allora a che serve andare a votare?”, se la sinistra esce forte dalle urne e poi questo non ha alcun riflesso sul governo. Al contempo Mélenchon è stato molto criticato per aver portato implicitamente a questo risultato. Già la sera delle elezioni ha detto che si sarebbe dovuto applicare “nient’altro che il programma e tutto il programma del Nouveau Front Populaire”. E invece nel nuovo contesto di frammentazione è indispensabile trovare delle colazioni e parlare con partiti politici diversi per trovare dei compromessi: ma è qualcosa che non rientra nella tradizione politica francese e con cui tutti devono ancora venire a patti. Resta il fatto che sotto Macron, anche per via del suo stile di governo giudicato estremamente “verticale”, si è arrivati a un livello di polarizzazione politica straordinaria».
Che farà il Rassemblement National?
«Penso possa essere piuttosto soddisfatto della situazione. Sosterrà il governo dall’esterno con un chiaro intento di sorveglianza, sapendo perfettamente di poterlo rovesciare se e quando lo dovesse ritenere utile. E nel frattempo potrà approfittarne per preparare le prossime scadenze elettorali, in particolare le presidenziali del 2027. Ne ha bisogno anche per formare i quadri di quello che spera potrà essere un futuro ciclo al potere, così come per chiarire un certo numero di punti politici che nella sua ultima campagna non erano molto chiari. Resta comunque la sensazione di una certa instabilità nel quadro politico nazionale, e non si può escludere che ci saranno nuove elezioni anticipate di qui a un anno».
Macron ha tenuto comunque per sé, come dimostra la lista dei ministri, le competenze chiave dell’Eliseo in politica estera ed europea. Ma qual è ora il suo peso reale ora in Ue, considerato anche il “licenziamento” di Thierry Breton da parte di Ursula von der Leyen proprio alla vigilia della presentazione della nuova squadra di Commissari?
«Come detto, è una Francia evidentemente indebolita dalla turbolenza politica interna. Un’instabilità evidente sul piano politico, ma anche su quello economico. Non scordiamo che la Francia ha sul collo una procedura Ue per indebitamento eccessivo, un debito pubblico al 112% del Pil e un deficit al 5,5%: parametri ben lontani dalle esigenze del Patto di stabilità che ora rientra in vigore. Tutto ciò ridurrà il margine di manovra della Francia a livello europeo rispetto ai suoi obiettivi chiave. Quanto a Breton, era un peso massimo della Commissione, con un maxi-portafoglio che comprendeva politica industriale, difesa, ricerca, digitale. Ora tutto ciò è stato spezzettato tra diversi Commissari e Stéphane Séjounré si ritrova con un portafoglio più limitato, essenzialmente dedicato al mercato interno e alla politica industriale. Resta da vedere che tipo di dinamiche s’instaureranno».
Instabilità politica, indebitamento pubblico con interlocuzioni difficili con la Commissione europea, un governo con chiaro profilo di destra specie sul tema dell’immigrazione: la Francia si “italianizza”. Sarà l’occasione per un riavvicinamento tra i governi dei due Paesi, i cui due leader pure notoriamente si detestano?
«Di partenariati con altri Paesi europei la Francia ne ha molti, ma quello chiave è e resta quello con la Germania, radicato e istituzionalizzato e visto come la forza motrice d’Europa. Con l’Italia quel che più ci avvicina sono le questioni dell’immigrazione, la stabilità del Mediterraneo, ma anche dell’Africa e del Medio Oriente. Lì ci possono essere punti di convergenza e di cooperazione più incisiva. Certo la relazione personale tra i due leader è complicata, ma tutti ora capiscono che Meloni è una leader forte e stabile, che gioca un ruolo importante a livello europeo e che dunque ha un peso importante in seno all’Ue e al G7. Dunque non possiamo escludere che Macron consenta benevolmente che ora si allaccino relazioni più forti su temi concreti tra il governo Barnier e quello di Giorgia Meloni».
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