Giappone, condannato a morte da 56 anni: il processo eterno all’ex pugile Iwao Hakamada verso una sentenza definitiva
Quattro morti, migliaia di yen spariti nel nulla, un uomo condannato a morte da 56 anni e che – giovedì 26 settembre – potrebbe finalmente essere assolto. È la storia incredibile dell’ex pugile giapponese Iwao Hakamada. L’88enne è accusato, secondo molti ingiustamente e senza prove, dello sterminio della famiglia del suo capo. La condanna, comminata nel 1968, non è ancora stata portata a termine. Nel frattempo, dal 2014, Hakamada è uscito di prigione in attesa di una sentenza definitiva. Non prima, però, di essere diventato il detenuto più longevo di sempre in un braccio della morte.
Il delitto e il primo processo
Il 30 giugno 1966 un incendio divampa nella casa di uno dei capi di Hakamada. All’interno dell’edificio, una volta domate le fiamme, vengono ritrovati i corpi dell’uomo, della moglie e dei due figli pugnalati a morte. E 20mila yen in contanti sono scomparsi. Hakamada è uno dei primi sospettati: la polizia lo arresta e lo sottopone a durissimi interrogatori. Secondo i legali del detenuto, l’ex pugile è sentito dagli inquirenti per un totale di 264 ore nell’arco di 23 giorni, senza che gli sia data la possibilità di bere acqua o andare in bagno. Nell’agosto del 1966 confessa il delitto. Più tardi spiegherà di essere stato costretto a firmare la confessione con calci e bastonate. I pm, inoltre, sostengono di aver trovato delle chiazze di sangue compatibili con quello delle vittime su un pigiama del detenuto. Oltre che di aver rinvenuto, un anno dopo il delitto, cinque capi di abbigliamento insanguinati trovati in una vasca di miso, una pasta di soia fermentata. Secondo l’accusa, il proprietario di quei vestiti è proprio Hakamada. Così, l’11 settembre 1968 tre giudici dichiarano l’ex pugile colpevole di omicidio e lo condannano a morte.
I dubbi
Da lì, negli ultimi 56 anni, i tentativi di riaprire il caso si susseguono uno dopo l’altro. Prima l’Alta Corte di Tokyo, poi la Corte Suprema del Giappone confermano la condanna a morte per cinque volte. Anno dopo anno, iniziano a emergere non pochi dubbi riguardo alle modalità dell’interrogatorio (una confessione estorta) e alle prove portate dai pm. L’arma del delitto, ad esempio, sarebbe un coltello da frutta, ma una lama del genere non avrebbe potuto sostenere la violenza di decine di coltellate senza uscirne danneggiata. Altro tema aperto è quello del pigiama ritrovato e associato ad Hakamada, pur essendo di qualche taglia più piccolo. E più sono le prove che sembrano scagionare l’ex pugile, più numerosi diventano i sostenitori. Motivo per il quale i vari ministri della Giustizia giapponesi che si sono susseguiti negli anni si sono sempre rifiutati di firmare la sua condanna a morte.
La libertà e l’attesa per la sentenza definitiva
Nel 2008, e ancora nel 2012, un test del Dna dimostra che il sangue ritrovato sugli indumenti non corrisponde a quello di Hakamada. Nel marzo 2014 il detenuto esce di prigione e il processo si riapre. Secondo il procuratore di Shizuoka ci sono motivi di ritenere che i pm avessero fabbricato le prove nel processo originale. Nel giugno 2018 l’Alta Corte di Tokyo conferma, però, la condanna pur concedendo ad Hakamada di rimanere a piede libero a causa dell’età avanzata. L’inizio del processo è rinviato per anni a causa di cavilli legali. Finalmente giovedì 24 settembre la Corte suprema del Giappone dovrà esprimersi sul caso. Assolto o condannato a morte? La Procura continua a insistere sulla linea della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. «Credo che questa volta sarà messa la parola fine», ha invece detto fiduciosa Hideko, sorella 91enne di Hakamada. Ma – se il passato ci può insegnare qualcosa – la sentenza potrebbe non essere quella definitiva.
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