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Festival di Open, Santi Francesi ed ex-Otago a confronto sull’indie: «Non si può vivere solo di Festivalbar» – I video

25 Settembre 2024 - 16:09 Gabriele Fazio
Gli artisti hanno raccontato le loro esperienze professionali e umane, in equilibrio (precario) tra musica indipendente e televisione

A quanto pare l’indie, parola che si riferisce al panorama discografico indipendente, un panorama sempre esistito ma che intorno agli anni Dieci del nuovo millennio è esploso in una rivoluzione cantautorale che ha fatto storia, è morto. A cosa è dovuta questa dipartita? Che si riferisce chiaramente a una percezione, perché gli artisti fuori dal giro mainstream non solo esistono ma si moltiplicano a vista d’occhio. Per rispondere a questa domanda il Festival di Open ha invitato a parlarne Maurizio Carucci, cantante degli Ex-Otago, una delle formazioni simbolo di quel movimento, e i Santi Francesi, duo elettro-pop che ha fatto un percorso quasi inverso, partendo dall’underground e imponendosi al largo pubblico tramite una fortunatissima partecipazione a X Factor. Maurizio Carucci e i Santi Francesi non hanno solo discusso un tema così delicato ma hanno anche regalato al pubblico di Parma un’esibizione in acustico particolarmente emozionante. La percezione, chiara, è che il cantautorato autentico, che provenga dalla scena indie o meno poco importa, sia un patrimonio di inestimabile valore da coltivare con la nostra attenzione, affinché non rimanga affogato da logiche di mercato che niente hanno a che fare con una forma d’arte pura come la musica.

Gli «scappati di casa» dell’indie

La discussione è partita dalla testimonianza diretta di Carucci: «È successo che una manciata di progetti sono passati dalle salette puzzolenti e umide delle provincie italiane a calcare grandi palchi e addirittura risuonare nelle più grandi radio italiane e questa cosa era davvero sorprendente. Questa dichiarazione così forte, “l’indie è morto”, effettivamente è reale, ma c’è una cosa che mi piacerebbe non morisse mai, che è la parola “indipendente”. La musica indie pop, comunque, con tutti i suoi limiti, le sue sfaccettature, le sue schifezze dentro, sembrava musica non subordinata, non asservita. In un momento in cui la musica leggera, nella peggiore accezione del termine, dominava tutte le scene, sono arrivati questi scappati di casa e con questa musica, tutto sommato nuova, riusciva a far parlar di sé e scalare le classifiche. Quindi se l’indie è morto speriamo che la parola “indipendente” non muoia mai». Quando nel 2022 i Santi Francesi si presentano a X Factor, già dalle primissime selezioni tutti sapevano che alla fine ce l’avrebbero fatta. Certo, a fare la differenza fu la loro raffinatezza, la cura di quelle sonorità così eteree e contemporanee, ma ciò che fece nettamente la differenza fu la preparazione, la gavetta, in poche parole l’esperienza indie accumulata prima di presentarsi al largo pubblico. «Se vai in un talent a 17-18 anni e tu per primo non hai chiaro che cosa vuoi fare nella vita, diventi uno strumento nelle mani di qualcun altro e se fai musica diventa decisamente un problema. Quando abbiamo fatto X Factor abbiamo avuto la fortuna di fare della gavetta prima e, soprattutto, di aver incontrato tante persone disposte ad accettare che non volessimo parlare delle nostre fidanzate, dei nostri parenti, della nostra vita privata, ma solo fare musica»

I talent

I talent come X Factor e Amici (The Voice in Italia non ha mai sfondato, unico caso nel mondo dove invece X Factor è considerato un flop) vengono ideati come programmi televisivi che utilizzano la musica come codice narrativo, solo dopo sono diventati una possibilità tangibile di sfondare nel mondo della musica, seppur con il marchio, spesso, a ben ragione o meno, indelebile, di prodotto commerciale e dalla dubbia qualità. Preziosa in questo senso ovviamente la testimonianza dei Santi Francesi: «Mai avuto paura di essere bollati come quelli dei talent per il semplice fatto che crediamo che se ascolti una cosa, che sia uscita da Sanremo, da X Factor, da Amici, se ti piace ti piace, se non ti piace non ti piace. Per noi il concetto è sempre stato: facciamo della musica e troviamo il modo di farla sentire a qualcuno, se poi tu ci vuoi snobbare perché nell’idea di cantautorato, di musica, andare in un talent è sbagliato, fallo. Ma non penso che sia giusto». Netta la posizione di Maurizio Carucci, non tanto verso chi partecipa ad un talent ma verso il concetto stesso di gara a tema artistico: «I talent di per sé non mi hanno mai affascinato, per me l’idea che un’opera d’arte venga giudicata già di per sé è una bestemmia, in più figuriamoci da alcuni soggetti, che sono anche miei amici, che però non mi sembrano titolati, perché nessuno lo è. È meglio Monet o Manet? Cioè francamente è un po’ imbarazzante come situazione».

La discografia di oggi

Quali sono i problemi della discografia di oggi? L’ossessiva ricerca di un’omologazione il più efficace possibile, ma anche una crisi di valori evidente. Due problemi che toccano i protagonisti del panel. Santi Francesi: «Ci provano tutti quanti da quando abbiamo provato a fare musica, che è sempre stata una curiosa super curiosa per noi. Perché in generale, soprattutto ultimamente, c’è un po’ la tendenza nel prendere un progetto e farlo assomigliare ad un altro progetto che già sta facendo un sacco di soldi. E diventa un casino, perché siamo tutti identici. Forse c’è meno coraggio rispetto al passato, voglia di prendere una cosa che magari suona leggermente diversa da quella che si sta sentendo e dire: “ok spingiamo questa”. Quindi abbiamo fatto collaborazioni, sessioni con miliardi di autori e produttori per trovare “i nostri veri noi”, quando alla fine “i nostri veri noi” siamo noi chiusi in una sala che produciamo le nostre canzoni da soli». Sul punto interviene così Carucci: «I flussi culturali seguono anche dei flussi legati alla società. Flussi politici, le tendenze…e ora non siamo in un flusso particolarmente roseo, forse anche la cultura ne risente, forse anche i testi delle canzoni ne risentono. Questo è un sospetto che ho».

Le esibizioni a Sanremo degli Ex-Otago e dei Santi Francesi

Qualsiasi sia la matrice musicale di un progetto, alla fine è quasi obbligatorio confluire all’interno del Festival della Canzone Italiana di Sanremo. È successo anche agli Ex-Otago nel 2019 e ai Santi Francesi nel 2024, due avventure dai tratti, come raccontano loro stessi, molto simili. Dice Maurizio Carucci: «A Sanremo gli unici momenti tranquilli erano sul palco, io perdevo la voce ma non perché cantavo ma perché parlavo, per dire sempre le stesse identiche cose che facevano morire dentro me, figuriamoci i giornalisti. Nel 2019 avevamo 1300 concerti all’attivo e abbiamo fatto il nostro, ci siamo divertiti, lo rifaremmo, sempre però con la canzone nostra, questo è importante, non abbiamo mai scritto per Sanremo, abbiamo sempre scritto per noi, poi quando c’era una canzone che ci sembrava avesse senso per quel contesto, l’abbiamo proposta ed è andata bene. Ma noi l’abbiamo vissuta così, come un qualsiasi palco, come se fosse il Fabrique a Milano o il Lokomotiv a Bologna, siamo saliti lì e abbiamo dato tutto quelllo che avevamo, come abbiamo fatto a Sanremo abbiamo fatto nei centri sociali davanti a 20 persone. Stessa storia». Simili i ricordi dei Santi Francesi: «Noi scriviamo per noi e non per Sanremo, adesso in realtà funziona che molti dei pezzi che sentiamo a Sanremo sono scritti in sessioni apposite per scrivere un pezzo per Sanremo. Che è un discorso a parte, nel senso che scrivere canzoni è una cosa, scrivere canzoni per Sanremo è un’altra cosa. Abbiamo vissuto sette giorni di follia, non sei una persona sei un animale quando sei a Sanremo, tutto il paese si trasforma, ci sono persone che ti seguono col telefono anche se non sanno chi sei, che fa super ridere. Però siamo riusciti a viverlo con dei paraocchi, abbiamo fatto il nostro, abbiamo cantato una canzone su un palco che è stata la parte più semplice dell’esperienza, perché tu sei lì per quello». Chiediamo poi agli artisti se il Festival di Sanremo debba essere libero di lanciare progetti musicali senza badare alle dinamiche da classifica della discografia e, tantomeno, a quelle televisive. Interessante la risposta di Carucci: «Effettivamente sarebbe auspicabile che un servizio pubblico svolgesse un ruolo culturale autentico e invece sembra che chi ha più follower, chi è più forte nei social, abbia più chance. Ma viviamo in questo mondo assurdo, non è che possiamo aspettarci da Sanremo qualcosa di particolarmente illuminante. Poi se arriva il conduttore particolarmente interessante, illuminato, colto, magari qualcosa succede. Se non arriva ci aspettiamo il Festivalbar permanente. Con tutto il rispetto che ho per il Festivalbar che mi manca anche, ma credo non si possa vivere solo di Festivalbar».  

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