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L’impotenza americana e il dilemma di Harris sullo scontro Israele-Iran: così la guerra ora può premiare Trump

02 Ottobre 2024 - 17:08 Simone Disegni
trump harris israele iran elezioni usa 2024
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Il tycoon attacca a testa bassa dopo i razzi sullo Stato ebraico: «Siamo sull'orlo della Terza guerra mondiale, ora ci penso io». E Netanyahu balla da solo

Sono ore di altissima tensione e totale incertezza sulla piega che può prendere la crisi in Medio Oriente. Dopo i colpi micidiali inferti a Hezbollah in Libano – culminati nell’assassinio del leader Hassan Nasrallah e proseguiti con le prime incursioni di terra di truppe scelte – i vertici di Israele valutano la possibile risposta all’attacco lanciato ieri dall’Iran con 180 missili. E tutti si chiedono, in base alle scelte che verranno fatte nelle prossime ore, se Benjamin Netanyahu riuscirà a riemergere definitivamente dal “buco nero” in cui era sprofondato dopo la strage di Hamas di un anno fa, volgendo a favore di Israele gli equilibri regionali. Ma sui media internazionali inizia in queste ore ad affacciarsi un’altra ipotesi, ben diversa e perfino più facile da misurabile nel breve periodo: e se il vero vincitore di questa convulsa fase di allargamento delle ostilità finisse per essere in primis Donald Trump? Non è un segreto che il candidato Repubblicano fosse finito nelle ultime settimane in seria difficoltà di fronte all’avanzata dell’avversaria “di riserva” per la Casa Bianca Kamala Harris. Un affanno restituito in maniera plastica nella performance dei due al dibattito tv del 10 settembre, e fotografato impietosamente poi dall’andamento dei sondaggi e delle donazioni. Per questo Trump cercava disperatamente un appiglio per rimettere il turbo alla sua campagna elettorale. E da ieri sera pare aver puntato fortissimo proprio sul dossier Medio Oriente.

Aperta campagna

«Il mondo è a fuoco e sta andando fuori controllo. Siamo senza leadership, nessuno guida questo Paese», ha ragliato Trump con tanto di nota ufficiale nonappena terminato l’attacco iraniano a Israele. «Nessuno è al timone e non si riesce neppure a capire chi sia più in confusione: Biden o Kamala. Nessuno ha idea di cosa stia succedendo», ha attaccato il tycoon tentando di schiacciare la candidata sotto il peso dei giganteschi problemi che deve affrontare l’Amministrazione uscente. Una spirale di eventi drammatici, e per molti incomprensibili, ideale per Trump per rilanciare la sua tesi preferita in tema di politica internazionale: «Sotto di me non c’era ALCUNA GUERRA in Medio Oriente né in Europa (…), ma la PACE. Ora c’è guerra o minaccia di guerra ovunque e i due Incompetenti che guidano questo Paese ci stanno portando sull’orlo della Terza Guerra Mondiale». Parole in libertà da campagna elettorale senza confini. Eppure le difficoltà della Casa Bianca sono reali, e evidenti. E le sottolineano senza troppi complimenti pure i media di sensibilità liberal.

Un anno di umiliazioni

Le spericolate azioni militari o d’intelligence di Israele subite dagli Usa, spesso se non sempre informati a cose fatte, sono ormai una costante ai limiti dell’umiliazione. Un «pattern di impotenza americana» che va avanti ormai da un anno – le resistenze di Netanyahu a ogni pressione per accettare il cessate fuoco a Gaza hanno fatto perdere il sonno a Biden – ma che nell’ultima manciata di settimane ha fatto un salto di qualità spettacolare. Dopo aver portato la guerra in casa a Hezbollah con un mix di azioni di guerra inedite e decise sempre in autonomia, lunedì sera il gabinetto di guerra israeliano ha dato il via libera all’avvio di operazioni di terra dentro al Libano. Scelta compiuta appena poche ore dopo che Biden aveva fatto pubblicamente appello al cessate il fuoco sul fronte nord. E d’altronde solo tre giorni prima Netanyahu aveva dato l’ordine di decapitare la leadership di Hezbollah con il maxi-attacco su Beirut da New York, appena concluso un intervento con toni da «guerra totale» al Palazzo di Vetro. Dov’era sbarcato neanche 24 ore prima tra le speranze Usa di una de-escalation. Il problema, affonda il colpo la Cnn, è che tutto ciò non è solo un «imbarazzo diplomatico» per Biden, che ha ormai i giorni (alla Casa Bianca) contati. «Ogni volta che un presidente americano viene snobbato, c’è un costo al loro prestigio personale ma anche alla percezione degli Usa come potenza globale». Tradotto: tutti, da Vladimir Putin a Xi Jinping, prendono appunti.

Il dilemma di Kamala

Il fatto, come nota Gideon Rachman sul Financial Times, è che con le sue ultime mosse Netanyahu ha messo non tanto Biden, ma Kamala Harris in un angolo quanto mai scomodo. Perché se alzare la voce su Gaza poteva riuscirle tutto sommato semplice, sempre difendendo il principio-base del diritto di Israele a fustigare i terroristi di Hamas, ora criticare Israele per la candidata Dem diventa molto più difficile. Perché gli occhi di tutti si stanno spostando sullo scontro macroscopico regionale: quello con l’Iran, Paese con cui l’America non ha relazioni diplomatiche ufficiali e che solo negli ultimi mesi è stato scoperto complottare per compiere «assassini politici» oltreoceano. Netanyahu insomma sembra potersi muovere praticamente indisturbato nella breve, lunghissima finestra elettorale Usa. Se Biden ha le armi spuntate, Kamala Harris può solo guardare preoccupata e al più rilasciare dichiarazioni di generico buon senso. Mentre Trump, che ha dalla sua il vantaggio di arrivare da una traversata nel deserto di anni fuori dalla stanza dei bottoni, può rilanciare incontestato la sua campagna sul «mondo che va a fuoco» sotto la gestione Dem e la «pace» che lui riporterebbe nonappena di ritorno al timone.

L’agenda Netanyahu e quella di Trump

Nel frattempo, Netanyahu ha ancora un mese per fare poco meno di ciò che vuole sui vari fronti aperti – tra Iran, Libano, Gaza (e Cisgiordania). Con l’unico limite – per lo meno è il suo auspicio – delle considerazioni di sicurezza nazionale e dei freni o limiti che l’establishment politico-militare israeliano sarà in grado di porsi per non rischiare di compiere passi falsi, dentro un umore dominante in questi giorni ai limite della hybris. Solo pochi giorni fa, e chissà se è solo un caso, a rispuntare dalle nebbie dell’era post-Trump è stato Jared Kushner – genero ed ex consigliere del tycoon sul Medio Oriente, ma soprattutto architetto degli Accordi di Abramo. Altro che cessate il fuoco, Israele deve ora andare fino in fondo e distruggere Hezbollah, ha scritto Kushner in un lungo post su X. Perché così facendo, dopo aver già neutralizzato in gran parte Hamas, riuscirebbe ad assestare un colpo fatale – se non altro sul piano strategico – all’Iran. Quel regime «è rimasto nel vecchio Medio Oriente, mentre i suoi vicini del Golfo stanno sprintando verso il futuro investendo sui loro popoli e sulle infrastrutture», ha scritto Kushner, rilanciando la rilevanza di quegli accordi di normalizzazione delle relazioni tra Israele e una serie di Paesi arabi della regione considerati da molto l’eredità più rilevante dell’Amministrazione Trump in politica estera. Che Biden nei suoi cinque anni non ha toccato, e che il “titolare del progetto” non vedrebbe l’ora di riprendere e ampliare. La scommessa è ancora acerba, ma se la guerra dovesse allargarsi ancora un tantino, suggerisce Rachman, proprio questa potrebbe rivelarsi essere la «sorpresa d’ottobre» che sposta gli equilibri nella corsa alla Casa Bianca. Di qui a un mese, giorno più giorno meno, la risposta.

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