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La guerra sul corpo delle donne, parla la giurista Bardet: «Dall’Ucraina al Medio Oriente, lo stupro resta strumento di potere»

04 Ottobre 2024 - 05:59 Alessandra Mancini
L'esperta di crimini di guerra, fondatrice della Ong "We are not Weapons of War", sarà oggi a Matera per partecipare a un convegno internazionale in concomitanza del G7 delle Pari Opportunità

Nelle guerre il corpo della donna diventa spesso campo di battaglia. Una pratica di dominio antica, che trova riscontri nell’attualità. Nei conflitti in corso, in Ucraina e Medio Oriente, sono stati confermati diversi casi di violenze sessuali. Sulla base delle prove raccolte dalla Commissione Onu è emerso come nel territorio ucraino siano stati commessi crimini di guerra da parte dei soldati russi. Un’indagine delle Nazioni Unite ha invece reso noti gli stupri perpetrati da Hamas durante l’attacco del 7 ottobre e sugli ostaggi a Gaza, a cui si accompagna la denuncia degli abusi sui palestinesi da parte dell’esercito israeliano e dei coloni in Cisgiordania. «Le violenze sessuali sono diventate endemiche in tutti i conflitti odierni. La differenza è che oggi sono meglio riconosciute e documentate», dice a Open la giurista Céline Bardet, esperta di crimini di guerra e da 20 anni impegnata in zone di conflitto. L’avvocata francese prenderà parte – insieme ad attiviste ed esperte provenienti da tutto il mondo – al convegno internazionale organizzato a Matera da Pangea Onlus insieme alla Fondazione internazionale Donne senza violenza con sede in Francia in concomitanza del G7 delle Pari Opportunità.

Dieci anni fa, con il sostegno di Angelina Jolie, Bardet ha fondato WWoW, acronimo di We are not Weapons of War (Non siamo armi di guerra): una Ong francese che si batte contro le violenze sessuali, comprese le aggressioni e gli stupri, nei conflitti. Con la sua organizzazione ha sviluppato lo strumento digitale BackUp «per raccogliere le testimonianze di chi subisce violenza e accertare le prove», spiega. Chi entra nel sistema, che sia vittima o testimone, risponde a un questionario giuridico, che può essere tradotto in qualsiasi lingua, registrare e caricare una testimonianza audio e fotografare gli abusi. Raccogliere dati completi per comprendere l’ampiezza del fenomeno non è affatto semplice: quando i conflitti sono in corso, tutto diventa più complicato. C’è tanto, tantissimo sommerso. Trattare gli stupri in tempo di guerra, informare le autorità competenti e garantire assistenza alle vittime è ancora più difficile di quanto lo sia in tempo di pace.

Qual è la situazione nei conflitti in corso, Israele, Gaza e in Ucraina, per quanto riguarda la perpetrazione delle violenze sessuali?

«Entrambi i conflitti hanno in comune l’aver messo in luce diverse forme di violenze sessuali. La differenza risiede però nel fatto che in Ucraina un numero significativo di attori della società civile e internazionale ha avuto immediato accesso al territorio e ha potuto condurre un lavoro di documentazione indipendente. In Israele, al contrario, esiste un rifiuto a collaborare con le Nazioni Unite e con la maggior parte delle Ong, mentre Gaza non è accessibile. A ciò si aggiungono ulteriori difficoltà: l’Ucraina ha chiesto aiuto ad altri Paesi, inclusa la Francia, per effettuare analisi medico-legali, soprattutto a seguito degli orrori commessi a Bucha. Israele ha rifiutato questa assistenza e ha preferito gestire autonomamente la situazione. Ma non è riuscito a condurre un lavoro rigoroso di documentazione, il che ha comportato oggi un numero esiguo di elementi tangibili. Anche se molte cose sono state filmate il 7 ottobre scorso, anche dagli aggressori stessi, il lavoro di analisi di queste immagini è faticoso. Inoltre, alcune violenze sessuali denunciate sono state negate da molte organizzazioni della società civile all’estero nel contesto di dibattiti ideologici e polarizzati attorno a questo conflitto. È essenziale ricordare che i conflitti generano anche molta propaganda e disinformazione, che è importante distinguere dal resto. In Ucraina, ad esempio, le violenze perpetrate dall’esercito russo e delle milizie associate, come Wagner, hanno mostrato come gli stupri facciano parte del loro modus operandi. Le istituzioni ucraine hanno avviato procedimenti legali e hanno persino condotto processi che includono tali stupri. In Israele non è in corso alcuna iniziativa giudiziaria, ad eccezione dell’apertura di indagini da parte delle forze di polizia, con poche comunicazioni sull’avanzamento. Molti testimoni oculari hanno riferito di stupri e violenze sessuali del 7 ottobre, ma queste testimonianze richiedono un lavoro di corroborazione mentre il Paese è concentrato su un conflitto a Sud con Gaza e a Nord con il Libano. La politica israeliana non fa delle vittime di violenza la sua priorità oggi. Sarà quindi necessario un lavoro indipendente accettato da Israele e soprattutto del tempo affinché i traumi possano essere gestiti».

Nei contesti dove ha lavorato, dalla Bosnia alla Libia, ci sono delle analogie per quanto riguarda la perpetrazione delle violenze sessuali nei conflitti?

«Indipendentemente dal Paese, dalla cultura o dalla religione, in tutti i conflitti le violenze sessuali vengono perpetrate. Questo dimostra che la pratica ha un carattere universale e non è specifica di una cultura o di un contesto particolare. Tuttavia, a seconda dei conflitti, essa può essere più o meno sistematica, più o meno organizzata o pianificata, e avere obiettivi diversi. Le violenze sessuali fanno parte degli strumenti di guerra con l’obiettivo di pulizia etnica, sterminio di una popolazione o ancora umiliazione e indebolimento degli oppositori politici. Possono persino essere utilizzate, come nella Repubblica Centrafricana o nella Repubblica Democratica del Congo, come strumento di terrore volto a far fuggire le popolazioni per impadronirsi delle terre, dunque con obiettivi economici».

Rimane quindi la stessa ovunque

«Prende semplicemente forme diverse e si compone di diverse forme di violenza come la schiavitù sessuale, il matrimonio forzato, le gravidanze forzate o gli aborti e le sterilizzazioni forzate. In Bosnia, è stata uno strumento di pulizia etnica: le donne venivano fatte rimanere incinte per “purificarle”, e di tortura contro gli uomini nei campi, dove la violenza sessuale era utilizzata per umiliare le famiglie e degradare i prigionieri. In Libia, è stata ampiamente utilizzata prima dal colonnello Gheddafi, che la impiegava come arma di pressione sui suoi ministri: aveva messo in atto sistemi per far arrivare ragazze molto giovani e poterle violentare a suo piacimento e farne schiave (le amazzoni), e poi come arma contro le donne durante la “rivoluzione” del 2011, dove quelle considerate ribelli venivano violate per strada, filmate, o ancora nel 2014, dove stupri quasi sistematici venivano perpetrati nelle carceri, in particolare contro gli uomini detenuti come oppositori».

In che modo i tribunali hanno affrontato questi crimini negli ultimi 20 anni?

«Il riconoscimento delle violenze sessuali come elemento di crimine internazionale è stato il frutto di un lungo lavoro. Anche perché, nella società in generale, la questione delle violenze sessuali è sempre stata considerata minore o secondaria, e quindi poco importante. Dopo la Seconda guerra mondiale, i tribunali militari di Norimberga e Tokyo si sono poco occupati di crimini sessuali. Nessun atto d’accusa davanti al tribunale di Norimberga ha incluso la questione delle violenze sessuali, mentre lo stupro è stato effettivamente utilizzato durante il conflitto da diverse parti e si sa oggi che era molto presente anche nei campi. Tuttavia, la Convenzione di Ginevra del 1949 riconosce l’illecito contro la dignità delle donne nel suo articolo 27: “Le donne saranno specialmente protette contro ogni attacco al loro onore, e in particolare contro lo stupro, la costrizione alla prostituzione e ogni violazione della loro pudicizia”».

Quando è arrivato il punto di svolta?

«Negli anni ’90 con il conflitto nell’ex Jugoslavia: è in quel momento che i media cominciano a parlare degli stupri in Bosnia e della politica degli stupri. Anche in Ruanda, quando le storie di centinaia di donne vittime di violenze sessuali hanno iniziato a emergere nel contesto di un genocidio brutale, la società e la comunità internazionale hanno iniziato a interessarsi davvero a questa questione. Tuttavia, anche con questo, ci è voluto tempo e un duro lavoro portato avanti dalla società civile affinché i tribunali penali internazionali includessero queste qualifiche negli atti d’accusa. Il primo processo dedicato esclusivamente a “sevizie sessuali” è stato quello di Furundzija nel 1998, e il processo Kunarac e altri nel 2002, che hanno qualificato gli stupri come crimini contro l’umanità, in particolare riguardo ai “campi di stupro” a Foca in Bosnia. Un terzo delle persone condannate dal Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia sono state dichiarate colpevoli di crimini che coinvolgono violenze sessuali. Questo è un dato significativo. Il tribunale penale internazionale per il Ruanda ha anche sviluppato una giurisprudenza essenziale, in particolare con il caso Akayezu, che ha qualificato per la prima volta le violenze sessuali come elemento costitutivo di genocidio. Tribunali ibridi come quello per la Sierra Leone hanno anche sviluppato giurisprudenze estremamente importanti per qualificare le violenze sessuali e includere numerose condanne. Oggi, la Corte Penale Speciale nella Repubblica Centrafricana avanza anche in questa direzione». 

E per quanto riguarda la Corte Penale Internazionale?

«Dalla CPI, attiva dal 2002, finora sono state emesse solo due condanne definitive per fatti di violenze sessuali: quella del congolese Bosco Ntaganda nel 2021 e quella dell’ugandese Dominique Ongwen nel 2022. La Corte ha ancora molte difficoltà a vedere gli accusati nella sua aula e fatica a integrare le violenze sessuali nei vari atti d’accusa emessi. A titolo d’esempio, il primo mandato d’arresto emesso contro Vladimir Putin nel contesto del conflitto in Ucraina riguarda solo i crimini di guerra legati alla deportazione illegale della popolazione (bambini) e al trasferimento illegale dalle zone occupate dell’Ucraina verso la Federazione Russa. Se nelle ultime decadi le violenze sessuali hanno ricevuto un’attenzione crescente dalle giurisdizioni penali internazionali, rimane ancora lunga la strada da percorrere affinché questi temi siano totalmente integrati nella persecuzione dei crimini internazionali e nella lotta contro l’impunità». 

Lei dice che «è ancora lunga la strada». Qual è l’ostacolo maggiore?

«Uno degli ostacoli maggiori per la persecuzione degli stupri come elementi costitutivi di crimini internazionali rimane la questione delle prove. In modo ricorrente, molti atti d’accusa integrano elementi di violenze sessuali per poi vederli abbandonati nel corso delle procedure a causa delle difficoltà nel convincere le sopravvissute e i sopravvissuti a testimoniare o a fornire prove tangibili. Questa è anche una delle ragioni principali per cui l’urgenza è, da un lato, quella di mettere risorse finanziarie per permettere alle Ong di poter reagire immediatamente durante una crisi o un conflitto per determinare le violenze sessuali e salvaguardare gli elementi di prova e, dall’altro, avviare una riflessione sul tipo di prova materiale da fornire per stabilire le violenze sessuali, dato che si sa che nel 70% dei casi queste prove sono praticamente inesistenti. Dobbiamo abbandonare le accuse di violenze sessuali solo perché non esistono elementi tangibili sufficienti? Che giustizia offriamo a tutte queste vittime invisibili?».

La violenza sessuale legata ai conflitti quindi solleva diverse questioni importanti, come appunto la mancanza di dati sulla sua portata, sulle sue conseguenze e sul numero delle vittime interessate a livello globale. Perché esiste così tanto sommerso?

«Oltre alla raccolta delle prove e al perseguimento dei colpevoli, anche la questione degli autori pone delle difficoltà, poiché spesso si tratta di gruppi armati o di membri delle forze di sicurezza, rendendo quasi impossibile l’identificazione individuale e il perseguimento. Infine, le vittime raramente sono in grado di identificare i loro aggressori, sia perché sono mascherati, sia per il grado di violenza e caos, sia per il trauma subito. Anche le prove richieste alle vittime sono inadeguate. Il processo di giustizia penale richiede il perseguimento dei singoli autori, anche se non sempre sono identificabili, e ancor meno lo sono come individui».

E cosa occorre fare?

«Bisogna lavorare di più sulle gerarchie che organizzano o permettono queste violenze. Anche alle vittime viene costantemente chiesto di testimoniare, ma la stragrande maggioranza non è disposta a farlo. Sono costantemente costrette, anche se è necessario un sostegno per aiutarle a farlo, e molte di loro non vogliono o hanno bisogno di molto tempo per poterlo fare, il che rallenta l’accertamento dei fatti. È indispensabile comprendere l’impatto della violenza sessuale in termini di trauma, soprattutto per ripensare le procedure e la gestione di questi sopravvissuti e le prove necessarie, come lo svolgimento delle udienze in tribunale. Il fatto, ad esempio, che le vittime debbano ripetere la loro testimonianza all’infinito e davanti a diversi organi non è efficace ed è estremamente ri-traumatizzante. Poi, quando si celebrano i processi, chiedere a queste vittime di comparire, testimoniare e affrontare i loro aggressori è anch’esso estremamente violento. Quando si raccolgono prove e testimonianze, c’è anche il problema della lingua e della cultura, e quindi del modo in cui le persone si esprimono».

Cioè?

«Spesso si trascurano, ad esempio, dettagli essenziali perché non si comprende l’aspetto culturale dell’interlocutore, che parla con le sue parole, la sua lingua, la sua cultura. Di conseguenza, molte vittime non vengono identificate come tali perché non lo hanno espresso in modo atteso o esplicito. Infine, uno degli enormi problemi rimane quello di comprendere la portata e il modus operandi della violenza sessuale nei conflitti e nelle crisi. Sebbene oggi tali violenze siano molto più pubbliche, il discorso rimane incentrato sulle vittime e poco sugli autori. Eppure è fondamentale chiedersi chi stupra. Così come è fondamentale analizzare le dimensioni di questa violenza nel mondo».

Esistono degli studi per comprendere l’ampiezza del fenomeno?

«Ad oggi, non esiste uno studio globale sulla portata e sul modus operandi della violenza sessuale in tempi di conflitto e di crisi. Da anni chiediamo risorse per poterlo realizzare. È essenziale perché finché non capiremo questa violenza, cosa la genera, chi la commette, come e perché, non saremo in grado di prevenirla a sufficienza. Il rapporto annuale del Segretario generale delle Nazioni Unite sulla violenza sessuale legata ai conflitti ha il merito di esistere, ma riporta solo i casi di violenza sessuale che sono stati confermati dalle Nazioni Unite. Il rapporto afferma espressamente che «non intende riferire sulla portata o sulla prevalenza di questo tipo di crimini a livello mondiale». L’assenza di tali studi, condotti su scala regionale, globale o addirittura nazionale, è estremamente discutibile. In molti Paesi si stanno conducendo studi sulla cosiddetta violenza sessuale “ordinaria”. Ma non c’è ancora nulla sull’uso della violenza sessuale come arma, anche se si tratta di un fenomeno globale che interessa tutti i continenti. Perché? Se vogliamo avere una speranza di arginare il fenomeno, dobbiamo innanzitutto comprenderlo e disporre di dati precisi sul campo».

Se da una parte non ci sono studi, dall’altra le società molto spesso faticano, o peggio, non vogliono prendere coscienza di queste violenze…

«Il tabù attorno alle violenze sessuali viene da molto lontano ed è presente in tutte le comunità e culture, a diversi livelli. Per quanto riguarda le violenze sessuali nei conflitti, è un argomento di cui si è parlato molto poco, se non affatto, per decenni e lungo la storia dell’umanità. Innanzitutto perché colpisce in gran parte le donne, che non interessano a nessuno e di cui il destino è ancora meno rilevante; in secondo luogo, perché per lungo tempo si sono considerate le violenze sessuali come danni collaterali della guerra e quindi non come crimini. Oggi, la comunità internazionale ha preso coscienza dell’importanza di questo tema e i sopravvissuti di tutto il mondo hanno iniziato a parlare e a raccontare la loro storia. Negli ultimi venti anni, i media hanno svolto un ruolo importante nel mettere in evidenza questi argomenti allo stesso livello delle altre forme di violazioni commesse nei conflitti».

Lei dice che «si stanno conducendo studi sulla cosiddetta violenza sessuale “ordinaria”», ma mancano quelli sulla portata della stessa nei conflitti…

«Che si parli di violenze sessuali legate ai conflitti e alle crisi, o di violenze sessuali definite “di diritto comune”, la lotta è relativamente simile: le violenze sessuali sono quelle che non si vedono e soprattutto che non si vogliono vedere. Le ragioni di ciò sono molteplici e variano a seconda dei contesti: norme sociali, culturali, religiose, giuridiche, tabù, miti radicati in società patriarcali, difficoltà di prova, assenza di volontà di perseguire i colpevoli. C’è una grande omertà sulle violenze sessuali: spesso i sopravvissuti non possono o non vogliono parlare per vergogna o per paura delle conseguenze. In alcuni Paesi, le vittime sono fortemente stigmatizzate, possono essere respinte dalle loro comunità e famiglie, possono essere ripudiate dai loro mariti, sposate al loro stupratore o addirittura condannate dalla legge per aver avuto rapporti sessuali al di fuori del matrimonio. Mantenere il silenzio è quindi spesso la decisione che si impone. Le violenze sessuali rimangono nella sfera privata e non diventano una questione sociale».

Ci sono altre difficoltà nel riconoscere lo stupro di guerra?

«Un’altra difficoltà nel riconoscere queste violenze è che a volte sono ordinate e commesse dagli agenti stessi dello Stato. Quando uno Stato è coinvolto in queste violenze, la sua volontà di vedere riconosciuti e condannati questi crimini può, ovviamente, essere minore. Fino a relativamente poco tempo fa, nella mente della maggior parte, in Francia ad esempio, lo stupro di guerra era qualcosa che accadeva in altri Paesi, in zone lontane, lontano dalle preoccupazioni di molti. La guerra nell’ex Jugoslavia, in una certa misura, e soprattutto più recentemente la guerra in Ucraina e il conflitto israelo-palestinese, hanno in qualche modo cambiato questa visione. Lo stupro di guerra diventa una preoccupazione universale, all’ordine del giorno nelle agende internazionali. C’è una consapevolezza che queste violenze non sono una conseguenza inevitabile della guerra: sono endemiche, sistematiche, strategiche e possono verificarsi in qualsiasi contesto. Prendere coscienza delle violenze sessuali richiede di guardare i contesti nel loro insieme e di includere questioni multiple, dalle norme sociali, culturali e giuridiche, allo stato di diritto, alla buona governance o alla sicurezza. Questa presa di coscienza avviene attraverso il patrocinio, attraverso discussioni, spiegazioni e pedagogia».

Le donne sono quindi sia uno strumento di guerra, che vittime dei conflitti…

«Le donne sono sia strumenti di guerra, che vittime dei conflitti. Subiscono i conflitti sia perché si trovano sempre in una posizione di vulnerabilità, sia perché vengono particolarmente e intenzionalmente bersagliate. Le donne e i bambini sono sempre le prime vittime delle situazioni di crisi e di conflitto: la loro vulnerabilità li espone in modo sproporzionato alla violenza della guerra e alle sue conseguenze. Possono, talvolta, essere strumentalizzate o colpite proprio perché rappresentano l’integrità fisica, culturale e sociale. E sono anche, per natura, garanti della perpetuazione della comunità attraverso la loro capacità di mettere al mondo dei figli. L’immagine della donna, anche nei suoi aspetti fantasiosi o simbolici, può giocare un ruolo in situazioni in cui si manifesta la volontà di distruggere e umiliare le donne di un’altra comunità, considerate inferiori ma soprattutto viste come una forma di “beni” appartenenti agli uomini e alla società». 

Un esempio?

«È il caso di Daesh, delle minoranze irachene come gli Yazidi, che erano considerate “miscredenti” e perciò le norme religiose permettevano di ridurle in schiavitù sessuale. I gruppi terroristici sono quelli che hanno istituzionalizzato le violenze sessuali attraverso guide su “come violentare o vendere donne e ragazze”, sviluppando approcci più istituzionalizzati alla violenza sessuale, come nel caso dello schiavismo sessuale, ad esempio con Boko Haram o l’Isis. Mentre nella Repubblica Democratica del Congo si osserva che le violenze sessuali vengono perpetrate in grande maggioranza contro donne e ragazze in modo estremamente violento, con l’intento di distruggere gli organi genitali e quindi impedire ogni vita sessuale e riproduttiva. Nella storia e in tutte le società, il corpo della donna è considerato un oggetto di desiderio maschile, da controllare e da utilizzare a fini politici o militari. La costruzione simbolica del corpo femminile è visibile anche nei rituali di iniziazione e nelle pratiche religiose, dove le donne venivano spesso rappresentate come oggetti di desiderio o sacrificio, considerate anche esseri deboli che necessitano di protezione. Questa rappresentazione alimenta e può spiegare la strumentalizzazione del corpo femminile nei conflitti, in cui spesso la violenza appare come una presa di potere e una vittoria di un uomo su una donna, ma anche come una vittoria contro una comunità attaccata, rafforzando la dominazione maschile e la supremazia su di essa. Questa visione della violenza come strumento di potere perdura nei secoli ed è utilizzata nei conflitti armati per umiliare, terrorizzare e disumanizzare le popolazioni nemiche. Lo vediamo ancora oggi in Ucraina e nel Medio Oriente».

Foto copertina: ANSA/LUKASZ GAGULSKI | La protesta contro gli stupri di guerra in Ucraina da parte dei soldati russi

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