7 ottobre, Machikawa: «La prigionia di mio zio, ostaggio di Hamas, ha fermato il tempo. Voglio la pace per noi e per i palestinesi» – L’intervista
«In prigione, quando ti torturano e ti lasciano alla fame, non si contano gli anni, ma i secondi. Il conto è presto fatto: per loro sono passati oltre 31 milioni di secondi». La voce di Efrat Machikawa è netta, profonda, il suo volto serio, solcato dalla sofferenza. Da un anno, ora esatto, suo zio Gadi Moses, 80 anni, è prigioniero di Hamas – o chissà di chi – nel buco nero di Gaza. Nello studio della sua casa, nel sud di Israele, campeggiano una gigantografia dell’amato zio, rinomato agronomo e uomo di pace, e una serigrafia di frasi benaugurali in giapponese. Prima che la strage del 7 ottobre sconvolgesse tutto, Machikawa era, ed è, un’esperta di processi interculturali, e di Giappone. Accetta di parlare con Open a poche ore dal fatidico anniversario perché, dice, tutti devono sapere, capire, cogliere la misura di quella gigantesca sofferenza. Senza negare quella altrui, dalla cui somma – Machikawa ha la forza e la lucidità di scandire, come ha fatto nei mesi scorsi pure al Congresso americano, all’Onu, in piazza – deve nascere il seme di qualcosa di diverso. Semplicemente deve.
Ci siamo, dunque. Un anno da quel sabato di terrore, un anno senza più uno notizie di suo zio, e di tutti gli altri. Se qualcuno gliel’avesse detto l’8 ottobre dello scorso anno ci avrebbe creduto?
«Noi familiari sentiamo in realtà come se il tempo si fosse fermato. Come se fosse sempre lo stesso giorno. L’unica cosa che mi fa rendere conto del tempo che passa in realtà è il cambiamento delle stagioni: d’improvviso inizia a far più freddo fuori, la stessa aria d’autunno che si cominciava a sentire un anno fa. E allora realizzi che sì, è passato un inverno e una primavera e poi ancora un’estate, sempre a guardare le foto dei nostri cari, e sì, è pazzesco».
I testimoni del rapimento di suo zio Gadi dal kibbutz di Nir Oz hanno raccontato che l’ultima cosa che è stato visto fare è stata andare incontro ai miliziani di Hamas che avevano invaso il villaggio per parlare con loro. Cosa pensa che volesse fare, e cosa dice questo della persona che è suo zio?
«Lui ha lasciato Efrat, Doron, Aviv e Raz (la sua compagna, la figlia e le nipotine, ndr) dentro la stanza-rifugio ed è uscito a parlare con i terroristi perché voleva fingere di essere da solo in casa. Era convinto che li avrebbe placati offrendo loro di prendere quel che volevano e poi andarsene – la chiave della macchina, soldi, la tv o altro in casa. Non sapeva che quel che loro volevano era lui, la sua vita. Così il primo gruppo di terroristi l’ha portato via e le ragazze sono rimaste nel rifugio. Più tardi un secondo gruppo di terroristi è arrivato a Nir Oz e ha preso e rapito pure loro. Ma mentre andavano verso Gaza è arrivato un elicottero dell’Idf che li ha colpiti e feriti o uccisi. Efrat è morta in quel tentativo di rapimento. Poi è arrivato un terzo gruppo di terroristi che ha preso madre e figlie e le ha portate infine a Gaza (Doron Katz-Asher e le figliolette sono poi state liberate durante la tregua di fine novembre 2023, ndr). Niente poteva fermare quell’orda di centinaia e centinaia di terroristi – non solo miliziani, persino ragazzini e donne della mia età. È stato terribile».
È tornata nel kibbutz dopo la strage? Cosa ne è rimasto?
«Nir Oz era come una piccola oasi di pace, 400 persone in case molto modeste strette a schiere l’una alle altre – come un piccolo resort nel deserto. A parte qualche praticello qua e là è andato tutto distrutto: case, alberi, tutto bruciato. Quando ci sono tornata nei giorni dopo la strage si sentiva l’odore della plastica bruciata, pure quello dei corpi bruciati, di esseri umani o degli animali. E poi la vegetazione distrutta, cenere ovunque. Penso che le persone normali non abbiano la capacità di immaginare cosa sia il male, sin quando non vedono qualcosa del genere. Quelle atrocità sono state commesse a Nir Oz, una comunità di persone estremamente pacifiche che credeva nella coesistenza. Molti dei suoi abitanti aiutavano palestinesi ad andare a curarsi. E le persone al di là del confine lo sapevano. Ma ciò non li ha fermati. La lezione è che il terrore può prendere di mira chiunque, non sai chi sarà il prossimo. Penso sia qualcosa che anche le persone in Italia dovrebbero tenere bene a mente».
Lei ha passato gran parte della sua vita e della sua carriera a occuparsi di multiculturalismo, diplomazia culturale, coesistenza. Quello che è successo dunque ha cambiato il suo sguardo sulle possibilità di convivere con i palestinese?
«La sfiducia e il tradimento del senso di umanità sono enormi. Se chiede non solo a me ma alla maggior parte delle persone di Nir Oz, tutti le confermeranno lo stesso sentimento. Eppure resta il fatto che noi non siamo persone di guerra. Cosa mai di buono può venire dalla guerra? Dobbiamo trovare un modo diplomatico di parlare coi nostri nemici, per definire un modo in cui possiamo avere rispetto reciproco. I terroristi non hanno alcun rispetto per la vita: loro dovrebbero essere sradicati, andare all’inferno. Ma sono certa che ci sono persone che vogliono solo vivere le loro vite in pace, proprio come voleva mio zio Gadi Moses».
Dopo il dramma di un anno fa questo tipo di considerazioni sono tutt’altro che scontate per molti israeliani – fin dentro il governo – che assimilano più o meno esplicitamente terroristi e civili palestinesi come se fossero tutti «il nemico».
(Non dice nulla per qualche secondo) «Io, la mia famiglia, le persone attorno a me, manteniamo la speranza che ci possa essere una vita diversa perché vogliamo mantenere la vita. Non vogliamo parlare la lingua della morte. E vorrei che la gente capisse che la maggior parte delle persone in Israele pensa che la guerra debba finire e che tutti gli ostaggi debbano essere riportati a casa. C’è un’enorme differenza tra le persone e il governo. Abbiamo un governo estremista e un primo ministro che sabota ogni possibilità di accordo. Noi stiamo facendo del nostro meglio per far sì che il governo si svegli e realizzi che la vita viene prima e faccia la cosa giusta. Certo, sono stati i terroristi guidati dal terribile Sinwar a fare tutto ciò, ma è responsabilità del governo e del primo ministro riportare tutti a casa».
Netanyahu non ha mai chiesto davvero scusa per i fallimenti politici, militari e d’intelligence che hanno consentito si compisse quella mattanza. Crede lo farà in occasione dell’anniversario?
«Le sue scuse oggi o domani suoneranno sempre irreali. Ma in ogni caso non mi aspetto che lo faccia. Mi aspetto solo che firmi un accordo che preveda la fine della guerra e il ritorno a casa di tutti i rapiti. È l’unica chance che ha se vuole cambiare l’eredità storica nera che si è scritto da solo. Non c’è più tempo per le parole, è tempo di azioni».
Nelle ultime settimane la guerra si è allargata anche al Libano e sino alle soglie dell’Iran. Pensa che questo avvicini o allontani la possibilità di librare gli ostaggi?
«Tutto dovrebbe fermarsi, per quanto mi riguarda, perché la vita è breve. Gadi non ce la fa più, e così pure gli altri», alza per una volta il tono Efrat, mostrando un grande cartello col volto sorridente dell’anziano zio. «Bisogna calcolare quante vite puoi salvare prima di fare qualsiasi altra cosa. Certo è molto importante avere confini sicuri per gli israeliani, permettere agli sfollati di tornare allo loro case, sradicare il terrore, difendere la nostra libertà e diritto di vivere nel rispetto. Ma prima di tutto deve venire l’imperativo di salvare vite. Spostare il focus dell’attenzione dagli ostaggi a qualcos’altro non è la cosa giusta da fare ora».
Chiuda gli occhi e immagini che il sogno che coltiva da un anno – vedere suo zio finalmente libero – s’avveri domani: qual è la prima cosa che gli direbbe, o che farebbe con lui?
(Nuova pausa, utile questa volta a lasciar sorgere un immenso sorriso) «Penso che la prima cosa non sarebbero parole, ma un abbraccio che dice tutto: un grande, lungo, lunghissimo abbraccio. Poi gli direi che siamo così fieri che abbia resistito e sia rimasto forte, e che sono sicura che abbia colpito col suo fascino perfino a Gaza. Perché lui è un uomo così affascinante che scalda il cuore di chiunque, e se lo conoscono, conosceranno noi e sapranno che un giorno le cose potranno essere migliori».
Infine, se incontrasse invece domani una sua coetanea, cittadina di Gaza, che ha vissuto dolori e perso anche lei suoi cari in quest’anno di guerra, cosa le direbbe?
«Non ho bisogno di immaginarlo, perché è già successo, ho già incontrato negli Usa persone del genere che conosco di Gaza. Non c’è molto da fare con coloro che se ne sono andati. Condividiamo il dolore. Possiamo non essere d’accordo sui modi per una soluzione ma concordiamo che dobbiamo essere rispettosi l’uno dell’altro e cefrcare un futuro migliore per i nostri figli. Nessuno può capire la perdita finché non la vivi. Serve una grande forza per superarla, ma dobbiamo trovarla. Perché vogliamo continuare con la vita. Vogliamo la pace, vivere insieme. E mi lasci dire che proprio il ritorno degli ostaggi sarebbe un punto di svolta. Se loro tornano a casa, dove meritano, questo fermerà il ciclo della violenza, e farà nascere il seme di un futuro migliore. Ne sono certa. Per questo il ritorno dei 100 ostaggi dovrebbe essere un obiettivo globale: un obiettivo palestinese, israeliano, di tutto il mondo».