7 ottobre, il dramma degli ostaggi (dimenticati) un anno dopo l’eccidio di Hamas: «L’inferno dove era proibito piangere»
È passato un anno dal 7 ottobre, il giorno più buio nella storia di Israele. Quello in cui i miliziani di Hamas hanno massacrato oltre 1.200 persone e ne hanno rapite 251. Di queste, 97 sono ancora a Gaza. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che – in risposta all’eccidio – ha scatenato una violentissima offensiva israeliana a Gaza con l’obiettivo dichiarato di liberare gli ostaggi, oggi viene accusato dai loro familiari di aver dimenticato i prigionieri. Mentre nella Striscia il numero di morti continua a crescere e il conflitto si allarga a Libano e Iran, sembra lontanissima – oggi più che mai – qualunque possibilità di tregua e di scambio di prigionieri.
Gli ostaggi e le uccisioni: cosa è successo il 7 ottobre 2024
Sono circa le 6.30 di mattina ora locale del 7 ottobre quando in 119 punti differenti migliaia di miliziani penetrano il confine con Israele. Si dirigono verso i kibbutz più vicini: Nir Oz, Be’eri, Kfar Aza, Nahal Oz. Non risparmiano nemmeno le centinaia di giovani presenti al Supernova Festival, a pochi chilometri dal confine con la Striscia di Gaza. Entrano nelle case, massacrano, prendono ostaggi, ripartono. Secondo un rapporto dell’Onu, ci sarebbero anche «buone ragioni per credere alla commissione di violenze sessuali». Da quel giorno è passato un anno, e molte delle persone rapite non sono ancora tornate a casa. Il 7 ottobre Hamas e Jihad Islamico Palestinese, gruppo militare sunnita, prendono in ostaggio 251 persone. Fonti governative di Tel Aviv rivelano che altrettanti prigionieri sarebbero stati strappati dalle mani dei miliziani grazie all’intervento dell’esercito israeliano. Oltre la metà degli ostaggi – 138 – non è israeliana o è in possesso di doppio passaporto. Tra di loro 54 thailandesi, 15 argentini, 12 tedeschi, 12 americani, 6 francesi, 6 russi, 2 filippini, 2 tanzaniani, 1 cinese e 1 singalese.
Le Brigate Al-Qassam, ala militare di Hamas, affermano di avere in loro possesso solo 200 delle persone rapite. Le altre 50 sarebbero nelle mani del Jihad Islamico Palestinese. Due settimane dopo l’attacco il giornale israeliano Haaretz pubblica la lista dei nomi di 201 ostaggi. Tutti hanno un volto, un nome, un’età. Da Kfir Bibas, neonato di 9 mesi, fino ad Arye Zalmanovich, 86 anni. Pochi giorni dopo, il 2 novembre, sulla copertina del Sun inglese campeggiano 32 foto di bambini e bambine. Al centro la scritta: «Bring them home», riportateli a casa. Tre semplici parole destinate a diventare lo slogan della campagna per il recupero degli ostaggi.
La tregua e lo scambio di prigionieri
La risposta israeliana è immediata e violenta. Il primo obiettivo, dichiara il ministro della difesa Yoav Gallant, è «distruggere gli operatori e danneggiare le infrastrutture in modo da sconfiggere e distruggere Hamas». È indubbio però che il massiccio bombardamento dei luoghi dove sono tenuti gli ostaggi ha un rischio elevato. La proposta ribadita varie volte dal capo di Hamas nella Striscia, Yahya Sinwar, è il cosiddetto all for all: «Rilasciare tutti gli ostaggi in cambio di tutti i detenuti palestinesi». Il governo di Tel Aviv fa muro. Finché Hamas apre alla liberazione di alcuni ostaggi in cambio di qualche giorno di tregua umanitaria, per concedere l’entrata di aiuti a Gaza. A mediare tra i due schieramenti ci sono Stati Uniti, Egitto e Qatar.
In realtà, prima della tregua, tra il 20 e il 23 ottobre Hamas rilascia 4 ostaggi per «ragioni umanitarie» di salute. Prima l’americana Judith Raanan con la figlia Natalie, poi le israeliane Nurit Cooper e Yocheved Lifshitz (79 e 85 anni). È solo un mese dopo che i leader dell’organizzazione terroristica e Tel Aviv raggiungono la prima intesa. Il 22 novembre l’annuncio ufficiale: la liberazione di 50 ostaggi in cambio di 150 prigionieri palestinesi e quattro giorni di cessate il fuoco, per permettere il transito a 200 camion di aiuti. Il giorno dopo i primi 13 prigionieri israeliani ritornano a casa, tra loro due fratellini di 2 e 4 anni. Il 25, dopo ore di tensioni che rischiano di far saltare l’accordo, altre 14 persone. Da lì si prosegue senza intoppi – anzi con un prolungamento della tregua – fino alla liberazione di 81 israeliani e 24 ostaggi stranieri, quasi tutti lavoratori agricoli thailandesi. È restituita alla famiglia anche la 21enne franco-israeliana Mya Schem, comparsa il 16 ottobre in un video diffuso da Hamas in cui implorava di essere liberata. Il percorso opposto viene fatto da 180 palestinesi detenuti nelle prigioni dello Stato ebraico. L’1 dicembre riprendono le ostilità. Da quel momento i bombardamenti sulla Striscia non cessano più.
I salvati
Oltre ai bombardamenti, il 26 ottobre l’Idf (l’esercito israeliano) inizia l’operazione di terra invadendo la Striscia di Gaza. Quattro giorni dopo le forze speciali, con il supporto dell’intelligence di Mossad e Shin Bet, liberano la soldatessa Ori Magdish. Da qui in avanti inizia una sfida – a distanza e non – tra i vertici di Hamas e Tel Aviv. Dalla Striscia continuano a trapelare notizie riguardo alla morte di ostaggi durante i tentativi di salvataggio. Secondo Netanyahu è semplicemente una strategia di «guerra psicologica». Bisogna aspettare il 12 febbraio 2024 perché l’esercito liberi altri prigionieri. L’Operazione Golden Hand, mano dorata, condotta nella città meridionale di Rafah porta al recupero di Fernando Simon Marman e Louis Har, due argentino-israeliani del kibbutz Nir Yitzhak.
L’8 giugno è il giorno dell’operazione più critica – Seeds of Summer, semi estivi – che porta alla liberazione di quattro giovani che il 7 ottobre erano stati rapiti dal Supernova festival. Dopo una preparazione durata mesi, con tanto di riproduzione a grandezza reale degli appartamenti dove gli ostaggi erano tenuti, l’Idf e lo Shin Bet entrano nel cuore del campo profughi di Nuseirat in pieno giorno camuffati da militanti di Hamas. Le forze speciali, però, incontrano una inaspettata resistenza da parte di terroristi lì presenti. Scoppia uno scontro a fuoco, reso ancora più sanguinoso dall’appoggio aereo dell’aviazione che bombarda le strade circostanti per aprire la strada ai mezzi israeliani. Il conto è salato: un ufficiale morto dalla parte di Tel Aviv, 276 vittime palestinesi secondo il ministero della Salute di Hamas (per l’Idf sono circa un centinaio). In Israele tornano Noa Argamani, ragazza simbolo degli ostaggi, Almog Meir Jan, Andrey Kozlov e Shlomi Ziv.
L’ultimo salvataggio avviene il 27 agosto, data in cui viene liberato da un tunnel sotterraneo il 52enne Farhan Al-Qadi. Da quel momento Hamas decide di cambiare comportamento.
Gli ostaggi “sommersi”
Dei 251 ostaggi, «Israele ne ha portati a casa 154 di cui 117 vivi». I dati li fornisce direttamente il premier Benjamin Netanyahu, durante l’ultimo discorso tenuto all’Assemblea generale dell’Onu il 27 settembre. Ciò significa che nelle mani di Hamas, secondo le stime israeliane, rimangono ancora 97 ostaggi. E che di altri 37 sono invece stati recuperati i corpi senza vita. In realtà i numeri non sono chiari: non è dato sapere quanti degli ostaggi etichettati come “nelle mani di Hamas” siano effettivamente ancora in vita. Il Times of Israel, citando fonti dell’Idf, specifica: dei 97 mai ritornati, 34 sono dichiarati morti. L’ultimo aggiornamento arriva proprio la mattina del 7 ottobre 2024: l’ostaggio Idan Shtivi sarebbe morto il giorno del suo rapimento dal Supernova festival. Il suo corpo rimane ancora a Gaza in mano ad Hamas. Solo per 63 prigionieri è ancora viva la speranza di tornare.
Alcuni sono uccisi poco dopo il loro rapimento, come dimostra un’investigazione del giornale americano Washington Post. Gli altri cadaveri sono scoperti mano a mano che l’Idf avanza nella Striscia. Il 15 dicembre 2023 uno degli eventi più drammatici. Tre ostaggi sono uccisi per errore da soldati israeliani, che li avevano scambiati per miliziani di Hamas. Secondo la ricostruzione di Haaretz, uno dei tre è addirittura inseguito e colpito a morte.
Otto mesi dopo, il 31 agosto 2024, l’esercito trova in un tunnel i corpi di sei ostaggi. Le autopsie chiariscono la causa della morte: pallottole sparate a bruciapelo, due o tre giorni prima del loro ritrovamento. Tra di loro c’è l’israelo-americano Hersh Goldberg-Polin, i cui genitori erano intervenuti alla convention democratica di Joe Biden. Israele si infiamma contro la conduzione della guerra di Netanyahu. Domenica 1 settembre il Paese si paralizza, e così anche i giorni successivi. Migliaia di manifestanti, guidati dai parenti degli ostaggi, chiedono che il capo del governo si assuma le sue responsabilità. Cadono nel vuoto le scuse pubbliche prima di Netanyahu stesso e poi del presidente israeliano Isaac Herzog. Intanto Hamas annuncia «nuove istruzioni» per i miliziani: uccidere qualunque ostaggio che l’Idf provi a liberare con operazioni militari.
La prigionia raccontata dagli ostaggi: l’inferno di chi «non può neanche piangere»
Chi torna vivo inizia a raccontare la sua esperienza. Dice di aver «attraversato un inferno», «il loro Olocausto». Una volta portati all’interno della Striscia, gli ostaggi sono divisi in gruppetti piccoli per essere più difficilmente rintracciabili dall’intelligence israeliana. Sono affidati a miliziani di Hamas e a civili. Mya Schem testimonia alla tv israeliana Channel 13 di essere stata tenuta in una casa familiare, dove tutti (anche donne e bambini) collaboravano consapevolmente con Hamas: «Lì tutti sono terroristi». Per chi è nei tunnel di Hamas le condizioni di prigionia sono ancor più dure. Dormono su panchine improvvisate o, come riporta la Cnn, su sedie di plastica. Di cibo, inizialmente sufficiente, ne ricevono sempre di meno: con il proseguire della guerra le razioni scarseggiano. Al massimo un pasto al giorno (del riso o una pita), l’acqua è razionata in bottigliette di plastica. I prigionieri, sostiene un ostaggio parlando con l’emittente israeliana Channel 12, arrivano a mangiare carta igienica inzuppata nell’acqua umida dei muri sotterranei. Secondo il Ministero della Salute di Tel Aviv, in media gli ostaggi perdono tra gli 8 e i 15 chili in sette settimane.
«È un inferno sotterraneo senza acqua, cibo, sole o cure mediche» sono le parole dell’israelo-americano Hersch Goldberg-Polin in un video rilasciato da Hamas il 24 aprile, qualche mese prima della sua uccisione. Le condizioni igieniche sono pietose: molti non si lavano neanche una volta. Non sono poche le famiglie di ostaggi che denunciano violenze sessuali ai danni delle donne, ma i racconti arrivano anche dagli ostaggi: la prima a farlo è la 40enne Amit Soussana in un’intervista al New York Times. Un prigioniero thailandese racconta a Channel 12 che alcuni, solo gli israeliani, sono «fustigati con cavi elettrici». Nessuno può parlare: i miliziani chiedono il silenzio assoluto. Di questo divieto i più piccoli ne portano i segni ancora adesso: non parlano più o si limitano a sussurrare, rivelano i genitori alla Cnn. «Non ci era permesso di piangere – aggiunge un altro alla Cnn – volevano fossimo felici. Se ci veniva da piangere dovevamo nasconderlo o darci una svegliata».
Le famiglie degli ostaggi contro il governo israeliano
Da mesi le grandi città israeliane si riempiono di migliaia di persone che chiedono a gran voce di risolvere la crisi degli ostaggi. In prima linea ci sono i familiari dei prigionieri, ancora a Gaza o già liberi, riuniti in un Forum. Dalle prime settimane di conflitto fino a oggi, continue ondate di rabbia e protesta hanno paralizzato lo Stato ebraico. «Bring them home», è la prima richiesta. La seconda è che paghino i responsabili delle falle di sicurezza e del mancato rimpatrio di tutti gli ostaggi del 7 ottobre paghino, tra questi il premier Netanyahu. «Sulla vostra coscienza resterà una ferita che non si rimarginerà mai. E che sarà ricordata da tutti come la distruzione del Paese per generazioni», sono le dure parole della madre di una soldatessa prigioniera a Gaza. Netanyahu si limita a ripetere che, al momento, «non è possibile riportarli tutti indietro».
Le manifestazioni sono numerosissime e molto partecipate. Il Forum organizza anche un lungo convoglio d’auto che, a fine agosto, arriva fino al confine con la Striscia. Tra le auto che viaggiano verso il luogo della scomparsa degli ostaggi ci sono anche alcune macchine bruciate dai miliziani il 7 ottobre. A fine estate, quando Hamas si diceva pronto a imbastire un accordo sulla falsariga di quello di novembre 2023, il rifiuto del cessate il fuoco da parte del gabinetto di guerra incendia ancora di più le famiglie degli ostaggi. Un «no» che, accompagnato dal ritrovamento dei 6 cadaveri a fine mese, porta il Forum a portare avanti uno sciopero generale per l’1 settembre. «A partire da domani, il Paese tremerà», è il messaggio dei parenti. «Chiediamo alla gente di prepararsi. Israele si fermerà. Netanyahu ha abbandonato gli ostaggi: ora è un fatto».
Mesi di bombardamenti e raid sulla Striscia, oltre che operazioni di terra. Il conto delle morti, secondo il Ministero della Salute di Hamas oltre 41mila, continua a crescere. Mentre esplode la Cisgiordania e il conflitto si allarga al Libano fino all’Iran. Netanyahu è accusato di non cedere a una tregua per tenersi strette le ali politiche più ortodosse. In ballo ci sarebbe una questione di potere personale: Bibi, sostiene l’ex portavoce del Forum delle famiglie, «sa che se va alle elezioni non sarà in grado di formare un nuovo governo, ed è motivato da fredde considerazioni politiche». In questo sarebbe venuto “in aiuto” l’Iran. Secondo l’editorialista del New York Times Thomas Friedman «alla domanda “cosa avreste fatto voi?”, Netanyahu ha dato una sola risposta: invadere Gaza, uccidere ogni miliziano di Hamas senza preoccuparsi dei civili, e poi rivolgersi al Libano». E dietro tutto questo, continua Friedman, «c’è la mano degli iraniani, che sono sempre pronti a morire fino all’ultimo libanese, palestinese, siriano o yemenita per eliminare Israele». Non è un caso che l’ayatollah Khamenei abbia definito il 7 ottobre «un atto legittimo».
Una guerra per conto terzi che, secondo il tre volte premio Pulitzer, fa comodo a Teheran ed è sfruttata da Netanyahu e dal suo «gabinetto messianico». Intanto Hamas con le sue minacce tiene alta la pressione sul governo di Tel Aviv, e così fanno le migliaia di contestatori interni: «Non c’è vittoria senza la restituzione degli ostaggi, e non c’è rinascita per un Paese che ha abbandonato 136 dei suoi cittadini prigionieri del nemico per 120 giorni». Ma per Bibi rimane una guerra «del bene contro il male». Che si può risolvere in un solo modo: con la resa incondizionata di Hamas e il rilascio di tutti gli ostaggi. «Se non lo faranno, combatteremo fino a raggiungere la vittoria. Una vittoria totale. Non c’è niente che possa sostituirla».