Sarebbero quarantaduemila i palestinesi uccisi dai raid israeliani sulla Striscia di Gaza dall’8 ottobre 2023. Il giorno dopo l’attacco di Hamas nel sud di Israele, quando furono assassinate 1.200 civili e sequestrare 251 persone (97 ancora nella mani dei rapitori). Delle vittime della risposta israeliana il ministero della Salute di Gaza dichiara di averne identificati 34.344: circa seicento pagine di nomi, età, sesso delle vittime. Una lunga lista che include oltre undicimila bambini accertati, quasi tremila palestinesi di età pari o superiore ai 60 anni e circa settemila donne. I restanti settemila, che vanno a comporre il tragico bilancio, non hanno ancora un’identità. Ma le macerie di Gaza, come riporta l’Onu, nascondono altri corpi senza vita da recuperare. Stando ai dati delle autorità palestinesi confermati dalle organizzazioni internazionali, sono circa diecimila le persone uccise dagli attacchi israeliani e sepolte sotto i resti degli edifici crollati. Non vi è, però, distinzione tra civili e miliziani: Israele sostiene di aver ucciso diciassettemila appartamenti ad Hamas. Il conflitto, che vede Israele impegnato su più fronti, ma anche la fame, la mancanza di un riparo e di farmaci, la rapida diffusione di malattie, il collasso del sistema sanitario nazionale (114 tra ospedali e cliniche sono fuori uso e quasi mille operatori uccisi, secondo l’emittente del Qatar al Jazeera), faranno aumentare, inevitabilmente, il già tragico bilancio sulla Striscia.
Dare un nome alle vittime
Dietro quei numeri ci sono volti, nomi e storie. La vittima più anziana, identificata dal Guardian, è un 101enne. Quella più giovane: una bambina appena nata. L’ultracentenario, Ahmed al-Tahrawi, nacque nel 1922 ad Al-Masmiyya. Un villaggio palestinese a circa 40 chilometri da Gaza, distrutto dagli attacchi israeliani. Secondo l’Ocha, l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, il 60% delle case e l’80% di tutte le strutture commerciali sulla Striscia sono danneggiate o distrutte. Gli abitanti del Paese di confine fuggirono durante la Nakba («la catastrofe»), l’esodo forzato della popolazione palestinese del 1948 dopo la fondazione dello Stato di Israele. «La sua famiglia partì a piedi, portando con sé poco più della chiave della casa del villaggio che non avrebbero mai più rivisto», ha raccontato al quotidiano inglese suo nipote Abd al-Rahman al-Tahravi. I figli non sopravvissero all’esilio, e così a Bureij, un campo profughi di Gaza, Ahmed al-Tahrawi e sua moglie ricostruirono le loro vite da zero. Ma la chiave della casa di Al-Masmiyya era sempre appesa al muro di ogni luogo o spazio in cui vivevano, il ricordo di ciò che ormai non c’era più. Tahrawi lavorava come sarto e gestiva un piccolo negozio, ha vissuto abbastanza a lungo da poter conoscere i suoi pronipoti. All’inizio della guerra si era trasferito da una delle sue figlie, ma il 23 ottobre l’abitazione fu bombardata. Dodici persone furono uccise, ora rimasero ferite. Tra loro c’era anche Tahrawi. Portato d’urgenza in ospedale con un’emorragia interna, non ha ricevuto le cure adeguate. I medici hanno dato la priorità ai giovani. È morto una settimana dopo.
La vita (non) vissuta di Waad
Due ore: è il tempo vissuto da Waad, una bambina rimasta vittima di un attacco israeliano il 15 febbraio scorso. Non era ancora nata quando il raid ha sepolto sua madre, Salam al-Sabah, sotto le macerie. I soccorritori, privi di attrezzature pesanti, hanno dovuto lavorare più di un’ora e a mani nude per liberare la giovane donna, incinta di 9 mesi. Suo zio, Eid Sabah, direttore infermieristico dell’ospedale Kamal Adwan, era in servizio quando i suoi famigliari sono stati trasportati d’urgenza nella struttura. Erano così coperti di polvere e fuliggine, che all’inizio non li ha riconosciuti: «Ho capito chi erano solo dopo che alcuni di loro hanno iniziato a urlare il mio nome. Mi sono bloccato per lo shock, poi mi sono ripreso abbastanza da iniziare a medicarli», ha raccontato. Per sua nipote era ormai troppo tardi, ma il feto all’interno del suo grembo stava ancora lottando tra la vita e la morte. Così i dottori hanno praticato un taglio cesareo e portato Waad in terapia intensiva. È sopravvissuta per sole due ore. La famiglia era fuggita dalla loro casa nel nord di Tal al-Zaatar all’inizio della guerra, dopo gli avvertimenti israeliani di evacuare l’area, e aveva trascorso mesi spostandosi tra le case dei parenti e i rifugi per gli sfollati. Stando al report del Palestinian Center for Human Rights sulla Striscia ci sono 50mila donne incinte nei rifugi senza accesso a cibo e a un’assistenza sanitaria adeguata, e il 15% di loro rischia di avere complicazioni legate alla gravidanza o al parto, e necessita di cure mediche aggiuntive che ad oggi non sono disponibili.