Pasquale Bruno, i calci e il calcio di una volta: «L’etichetta di cattivo? Io sono così»
L’ex difensore Pasquale Bruno come soprannome aveva “O animale”. Lo spesso di Pasquale Barra, killer di camorra. «Era un altro calcio, anzi era calcio: sicuri che lo sia ancora con questi rigorini fischiati appena sfiori una scarpetta? Oggi non prenderei un giallo perché gli attaccanti sono scarsi, nemmeno sanno stoppare. Ai miei tempi c’era il top, da Maradona a Van Basten, da Careca a Baggio e Vialli. Solo nel mio Toro ripenso a Casagrande, Aguilera, Scifo e Martin Vazquez. Tutti santi, sopportavano botte e angherie. Fossi nato vent’anni dopo, avrei avuto vita facilissima», dice oggi in un’intervista a La Stampa.
I calci
Non è dispiaciuto del fatto che lo ricordino per i suoi interventi: «No, perché sono così. Ancora oggi, a 62 anni, capita che m’incazzi al calcetto con gli amici. Eppoi l’etichetta di cattivo non mi sminuisce: nella categoria, con me, mettono giocatori importanti, Montero o Materazzi che ci ha fatto vincere un Mondiale. Oltre alla classe, servono la forza e il carattere: i talenti del mio Toro sono ancora amati, ma i tifosi ripetono anche la sequenza Annoni-Bruno-Policano».
Ricorda che all’inizio della carriera giocava in attacco, poi diventò terzino sinistro: «Allora se avevi paura non giocavi. Certi campi erano un inferno, guai a vincere, la rete era così vicina che ti pungevano con gli ombrelli». Poi la Juve: «Boniperti mi seguiva già al Lecce, ma il presidente Iurlano e il ds Cataldo spararono alto e così presero Caricola. Alla Juve, che era il mio sogno, ho vinto, diviso lo spogliatoio con grandi campioni, uno per tutti Scirea, e conosciuto persone importanti come l’Avvocato Agnelli. Però non mi sentivo a mio agio».
Il Torino
Da lì il passaggio al Torino: «Il mio ambiente, lo percepivo già quand’ero dall’altra parte. La Juve era forte e ricca, ma il Toro rappresentava il popolo: era storia, amore, emozione e sofferenza. Ma ci pensate ai tre pali nella finale Uefa con l’Ajax? Poteva succedere solo a una squadra bella e dannata». Tra le eredità bianconere, l’amicizia con Rush. «Arrivammo insieme e ci misero nello stesso hotel, fu subito sintonia benché all’epoca non parlassi inglese: ci intendevamo a gesti, con qualche parola e tanta birra». Ricorda le liti con Baggio: «Non ci siamo mai amati. Una volta fummo espulsi entrambi e lui si avvicinò al mio spogliatoio, dissi al massaggiatore: “Portalo via o lo rovino”. Due anni fa, però, un giornalista gli anticipò che in un’intervista ne avevo riconosciuto la classe e lui rispose con un cuore, mandandomi i saluti».
Van Basten
Marco Van Basten invece «dopo un autogol mi danzò davanti. Buon per lui che non me ne accorsi, frastornato dall’errore: Capello lo tolse temendo una mia reazione». Poi ricorda l’aggressione all’avversario Lerda nel tunnel a Firenze: «Se l’era meritato, mi chiamò terun e mi sputò in faccia. Lo aspettai. C’era anche Batistuta». Al ritorno ebbe la scorta. «Baiano e Orlando mi pregarono di non andare, Ranieri mi chiese se me la sentissi. In ritiro ci fermammo a Verona per sicurezza e all’ingresso del pullman allo stadio la Digos mi chiese di sdraiarmi per non farmi vedere. Due agenti mi seguirono ovunque, anche a bordo campo».
A 40 anni è tornato alla sua squadra d’esordio, il San Donato: «Da attaccante, ma mi è capitato di darle lo stesso. Una volta un ragazzino che mi marcava faceva lo scemo, gli ho detto di non rompere e niente, dopo una gomitata su azione d’angolo ha capito». E si pente di una cosa: «Di aver detto a un giornalista che 4 miliardi in banca contano più dei 4 in pagella. Non mi appartiene, ma parlai a caldo dopo una brutta prestazione e mi sentii provocato dalle sue critiche».