Stefano Tacconi, le sigarette elettroniche, l’aneurisma e il coma: «Ora penso solo alla porchetta»
L’ex portiere della Juventus Stefano Tacconi ora fuma sigarette elettroniche: «Queste, mi restano». La moglie Laura e il figlio Andrea dissentono in silenzio. «Prima delle partite mi facevo otto caffè, un pacchetto di sigarette e un amaro: se in centomila mi urlavano cabron, come al Bernabeu, non me ne fregava niente. Zenga invece pativa tutto ciò. Il mio amico Walter: ci davano per rivali, invece ci mettevamo d’accordo per decidere con quale polemica stuzzicarci», ricorda oggi in un’intervista a Repubblica. Dopo due mesi di coma, due anni di ospedale, tre operazioni per l’aneurisma. Dice che vuole «aprire un ristorante e lo farò, alla faccia loro (di moglie e figlio, ndr). Specialità umbre, dalla porchetta in poi. Vino e cibo a quindici euro. Ci penso da quando mi sono risvegliato».
Il primo pensiero
Anche se il vero primo pensiero, quando si è risvegliato, è stato che era morto: «Quando ho aperto gli occhi ho visto mia moglie: ma sei morta pure tu? Credevo di essere in paradiso. Anche se mi sa che io finirò all’inferno». Il presente, invece, è ancora «faticoso. La malattia ha lasciato tanti strascichi, specie alla gamba destra». Ora gli manca «la libertà. Laura e Andrea sono due aguzzini». Ovvero: «Prendere, andare, mangiare, bere, guidare. Non stavo mai fermo, volevo fare il fighetto e non mi sono negato nulla, solo che poi il fighetto è stato castigato». Ma non ha rimorsi: «Ne è valsa la pena. Sempre meglio che andare al cimitero. A proposito: quando capiterà crematemi, così evito a tutti il fastidio di andarmi a trovare al camposanto». Ma «se avessi allenato Cassano e Balotelli li avrei presi a calci in culo non so fino a dove. Da dirigente, a quelli come Tacconi avrei detto di fumare e bere meno. Che poi è quello che mi dicono Laura e Andrea. Sono i miei dirigenti».
Il calcio di oggi
Secondo lui il calcio di oggi «è di una noia mortale. Sono tornato allo stadio per Juve-Napoli: una palla. Noi portieri eravamo dei pazzi, adesso sono tutti a modino e giocano con i piedi. Io appena avevo la palla la tiravo più lontano che potevo». Lui, invece, era pazzo: «Lo sono ancora. In ospedale dovevano legarmi al letto. Una volta sono scappato, m’hanno trovato al quarto piano. Dico grazie a tutti: la sanità pubblica m’ha salvato la vita». Ma un po’ è cambiato rispetto a prima: «Piango un po’ troppo, mi commuovo facilmente. Ma leggete la frase di Agnelli nel frontespizio del mio libro: un uomo che non piange non farà mai grandi cose».