La versione della Pira: “La crisi cinese rallenta anche il petrolio: ecco perché i prezzi del greggio non aumentano nonostante le guerre”
Con i conflitti in corso, dal Medioriente a quello russo-ucraino, allo Stretto di Taiwan la prima cosa che ci si aspetterebbe è un balzo del prezzo del petrolio. Perché non si muove? Viaggia sempre sotto gli 80 dollari al barile e anche solo sei mesi fa era sopra i 90. Nonostante le tensioni nelle ultime due settimane si siano acuite, non ha fatto una piega. A muoverlo infatti è soprattutto il classico gioco di domanda e offerta. Le prospettive economiche parlano di rallentamento nel medio termine e la domanda di petrolio di conseguenza potrebbe subire un calo. Ma a non muoverlo è soprattutto la Cina, a causa della crisi che sta colpendo il Paese.
Cosa succede all’economia cinese
Il continente cinese non cresce più come un tempo. I suoi consumatori non comprano e questo è un problema. La Banca centrale ha effettuato un paio di manovre cui gli economisti hanno applaudito ma passata la reazione iniziale non sono bastate. Eppure sono state decisioni importanti: la People’s Bank of China ha tagliato i tassi per i prestiti a breve termine e, nello stesso giorno, abbassato il tasso di riserva delle banche (ovvero, potete avere meno soldi in riserva date pure all’economia). Reazione iniziale del petrolio e dei titoli legati al lusso (le cui vendite languono in Cina) e poi di nuovo appiattimento. Per gli economisti la crisi è strutturale e oltre alle decisioni di politica monetaria, servono quelle di natura fiscale. Leggasi: mettere i soldi in tasca ai cittadini. Sabato 12 ottobre era grande l’attesa per la conferenza stampa del ministro delle finanze cinese. Ma le sue parole sono state definite un “flop” da molti analisti che si aspettano – perché la situazione si possa risolvere – almeno mille miliardi di $ di aiuti, un whatever it takes in salsa cinese che però non arriva. E così il prezzo del petrolio, dopo la conferenza di sabato, è sceso ancora, non aiutato dall’ultimo dato sull’andamento dei prezzi: il Paese vede lo spettro della deflazione. I prezzi non salgono, segnale di una economia che arranca.
La variabile Iran
Un’ultima nota per completezza di informazioni. Il petrolio salirebbe anche in un altro caso: se l’Iran venisse coinvolto. L’ultimo vero balzo verso i 79 dollari (ma dobbiamo sempre considerare il contesto, ovvero che solo sei mesi fa il petrolio era sopra i 90 dollari al barile) si è registrato dopo i missili lanciati dall’Iran nei confronti di Israele. La rappresaglia israeliana a questo lancio di missili tarda ad arrivare ma è bastata l’azione di Teheran a rinvigorire il greggio. I mercati infatti temono che in quel caso ci potrebbero essere problemi di fornitura. Basterebbe chiudere lo stretto di Hormuz – da dove passa quasi tutto il petrolio arabo e quello iracheno – o attaccare i siti petroliferi dei Paesi del Golfo, alleati degli Stati Uniti e amici di Israele.
L’importanza dello stretto di Hormuz
Da Hormuz banalmente passa anche il gas liquefatto, cosiddetto Gnl che viene poi ritrasformato in stato gassoso una volta arrivato a destinazione, che arriva dal Qatar. Va però detto che l’anno scorso in Italia ne è arrivato di più dagli Usa e dall’Algeria. Quanto petrolio invece l’Italia importa dal Medioriente? Si è passati dal 30% del 2020 al 15% circa attuale: nel 2024 è la Libia il nostro maggior fornitore di petrolio. Interessante invece sottolineare come l’Iran esporti gas via tubo ai paesi confinanti ma esporti petrolio attraverso Hormuz soprattutto alla Cina. Come dire, se l’Iran bloccasse Hormuz si farebbe male da solo.
Nella foto: Mariangela Pira e un pozzo di petrolio