Walter Sabatini e il coma: «Ho visto Dio sotto mentite spoglie, ma è stato deludente»
Walter Sabatini, dirigente sportivo, oggi ha lasciato la guida della Salernitana. Il momento più alto della sua carriera è stata la Roma tra 2011 e 2016. Oggi in un’intervista al Corriere della Sera spiega che «L’immagine che racchiude tutto è quella di Aureliano Buendia in Cent’anni di solitudine , il mio libro preferito: il condannato e gli uomini del plotone d’esecuzione hanno la mia faccia». Dice che un personaggio che ammira è Fausto Bertinotti e che non ha più «stima di Israele: Netanyahu si sta comportando come i peggiori nazisti».
Il calcio come menzogna
Parla della morte di Renato Curi: «Non riesco a superare indenne una giornata senza pensare a Renato. Aver perso la poesia che avevo scritto quella notte, ha aggiunto altro dolore. Per scriverla mi ero dovuto scolare una bottiglia di whisky. Parlava del fatto che il mondo doveva fermarsi per rispetto, invece andava avanti come nulla fosse». Il calcio, per lui, «è soprattutto una menzogna, un imbroglio: regala tanto a pochi e niente a tutti, per cinquanta fortunati ci sono cinque milioni di disperati. E non c’è niente di peggio che crescere nell’illusione di poter fare il calciatore». Poi parla dei suoi problemi di salute: «Sono un malato cronico ai polmoni e ai bronchi e ho due stent al cuore. Le mie giornate sono pigre, ritmi alti non ne posso tenere. Quando esco lo faccio con la sedia a rotelle, perché mi si è spostata una vertebra e dopo la cementificazione mi ero montato la testa e sono scivolato dal letto, fratturandomi il femore. Sono tutto rotto, ma il vero problema resta il respiro: per parlare senza affaticarmi devo usare l’ossigeno».
La morte in faccia
Dice di aver visto la morte in faccia «nel 2018. Ma quello che mi tormenta è il coma farmacologico di circa venti giorni: ho incontrato chiunque sotto gli effetti dei farmaci. Sembrava così reale che mi causa ancora dei tormenti. Ho incontrato anche Dio sotto mentite spoglie, ma è stato un po’ deludente perché mi ha trattato con molta sufficienza». Nell’aldilà, dice, «ci voglio credere. Stavo leggendo un trattato di teologia alla ricerca dell’anima: per capire se esiste, se deriva biologicamente dai genitori o se c’è un’anima universale di cui ognuno di noi prende una piccola quota. Ci devo credere». E spiega: «Non sono uno che si ritirerà: devo morire e non succederà neanche quello, non per ora. Il cervello non mi permetterebbe il ritiro. Aspetto ancora qualcosa dal calcio: devo prendere e dare. Anche se il calcio mi ha devastato».
La Roma e Totti
Spiega sui calciatori di aver «preso una persona per recuperarne un paio alle 3 del mattino in giro per Roma: il mattino dopo, a Trigoria, lui doveva intercettarli, portarli in uno spogliatoio a parte, fargli fare una doccia e bere un caffè. Capitava sempre con Maicon e Nainggolan, forse il centrocampista più forte che ho avuto, però testa di c… notevole: aveva l’obbligo di chiamarmi all’una di notte, ma mi prendeva in giro alla grande. Però non ha mai saltato un allenamento o una partita». E poi Totti: «In lui non poteva non esserci egoismo, perché la vita lo ha condotto su quel sentiero e ce lo ha lasciato. E lui non ha avuto la forza intellettuale di liberarsi da una certa condizione. Non è mai riuscito a ragionare con il “noi”, ma sempre con l’io. La verità è che non gli hanno permesso di vivere: a Roma è stato un prigioniero, già a 17 anni non poteva uscire di casa. Per tutta la vita è stato il Capitano, l’Intoccabile. L’isteria che ho visto verso di lui è irriferibile e lui l’ha pagata con la solitudine. Ancora oggi è un ragazzo solo, tant’è che le cose che ha cercato di fare non è riuscito a farle».