Usa 2024, la corsa per la Casa Bianca si decide in sette «swing states»: le strategie dei candidati Stato per Stato
La corsa per la Casa Bianca si deciderà in sette Stati. Non perché siano quelli che garantiscono il maggior numero di grandi elettori – in totale 93 sui 538 disponibili – ma perché possono pendere per Kamala Harris come per Donald Trump. Nemmeno il sondaggio più accurato possibile è in grado di predire in che direzione voterà l’elettorato durante l’Election Day del 5 novembre. Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Nevada, Arizona, Georgia, Carolina del Nord: sono i cosiddetti swing states nelle elezioni americane 2024. Gli Stati, come dice il nome, che oscillano tra i candidati. E in cui spendono le maggiori energie e le maggiori risorse. «Negli Stati in bilico, un solo voto può fare la differenza», dice a Open Costas Panagopoulos, professore di scienze politiche alla Northeastern University di Boston e co-autore del libro Battleground: Electoral College Strategies, Execution, and Impact in the Modern Era. Per questo la maggior parte degli sforzi in campagna elettorale si concentrano su una porzione minima degli Stati Uniti.
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L’importanza degli swing states
In America ogni partito ha le sue roccaforti. «Ci sono alcuni Stati in cui, dati i modelli di voto storici e la distribuzione dell’identificazione partitica degli elettori, i candidati sanno che vinceranno o perderanno», spiega Panagopoulos. Se i democratici danno per assodati lo Stato di New York, la California e il Massachusetts, i repubblicani dormono sonni tranquilli in Texas, Utah e gran parte della regione delle Rocky Mountains. Insomma, il meccanismo a elezione indiretta del presidente dà la sicurezza ad ambedue le parti di avere già in cassaforte un determinato numero di grandi elettori. Non rimane altro che giocarsi i rimanenti, quelli decisivi. Da qui l’espressione battleground states, i campi di battaglia tra i due sfidanti.
Al momento, se tutti gli Stati considerabili roccaforti rispettassero il pronostico, rimarrebbero da assegnare solo 93 dei 538 grandi elettori. Ai due candidati basta la maggioranza assoluta: 270. Ma per raggiungerla, entrambi hanno bisogno di qualche successo nei collegi elettorali ancora non decisi. Semplificando: chi si aggiudica il maggior numero dei delegati toss-up – che possono pendere da una o dall’altra parte – ha grandi possibilità di entrare nella Casa Bianca come prossimo presidente.
Individuare gli Stati in bilico: il caso della Carolina del Nord
Gli swing states, puntualizza Panagopoulos, cambiano ogni ciclo elettorale «a seconda di come si sentono i cittadini e di come è composto l’elettorato in quegli Stati». Anno dopo anno, i partiti tengono monitorata la situazione in ogni angolo degli Stati Uniti per tentare di comprendere quali saranno i terreni di battaglia. «Le campagne conducono costantemente sondaggi interni che danno un’idea dell’andamento delle loro candidature negli Stati», spiega a Open il professore della Northeastern University. Ma, ancora più spesso, è sufficiente confrontarsi con la storia elettorale di una data zona. Guardando sia ai risultati delle urne precedenti, sia a veri e propri modelli di voto storici. «Il comportamento di voto – continua Costas Panagopoulos – tende a essere piuttosto coerente. Se in uno Stato si ottiene il 65%, quattro anni dopo si otterrà il 59 o il 68. Ma non si passerà dal 65% al 30».
Le cose possono però cambiare anche drasticamente durante il corso di un ciclo elettorale. È il caso della Carolina del Nord: «Nel 2024 non avrebbe dovuto essere molto competitiva quando Biden era il candidato democratico. Da quando Kamala Harris è entrata nella corsa, la Carolina è ampiamente considerata uno swing state». Prima del ritiro della candidatura dell’attuale presidente Joe Biden, Donald Trump era infatti comodamente in vantaggio. Tanto che molti dei principali sondaggisti neanche ne registravano il risultato, reputandolo più una perdita di tempo che altro. A Kamala Harris sono bastate due settimane per recuperare la distanza dai repubblicani e riportare la sfida a una parità fino a poco tempo prima insperata. Un cambio repentino a cui entrambe le campagne hanno dovuto adattarsi.
Le diverse strategie elettorali negli Stati in bilico
Per vincere la battaglia degli swing states bisogna combattere. Scendere in campo, fisicamente e no, su quei territori e guadagnarsi l’elettorato indeciso. Prima di tutto, spiega il professor Panagopoulos, «la decisione da prendere è se intendono rivolgersi agli elettori di uno Stato». Non è detto, infatti, che la campagna lo reputi cruciale o importante nella sua strategia. Se decide di impegnarci una porzione importante delle risorse a disposizione, bisogna «scegliere quali tipi di elettori cercheranno di corteggiare e come farlo». E le modalità qui sono innumerevoli, anche perché – puntualizza l’esperto – «devono essere specifiche per ogni Stato. Non esiste una strategia di campagna “a taglia unica”».
La questione, spiega Panagopoulos, è ancora più complessa. «Anche le diverse regioni di uno stesso Stato saranno prese di mira in modo diverso. Ci sono aree molto differenti tra loro: rurali, urbane, suburbane. Alcune zone si prestano a un tipo di tattica di campagna e altre no». L’esempio principale, in questo caso, è il cosiddetto door-to-door canvassing, il bussare porta a porta e presentare il programma elettorale. I due candidati si avvalgono di un vero e proprio esercito di volontari: il team di Kamala Harris ha raccontato al New York Times di aver bussato in Pennsylvania alla porta di 100mila abitazioni in un unico sabato. Ma è una modalità che non si presta alle grandi città.
Un altro metodo molto utilizzato, soprattutto negli Stati in cui la battaglia è sul filo del rasoio, sono i comizi. La strategia dei rally non è un semplice modo per mostrarsi in pubblico e incitare coloro che già sono convinti del loro supporto. I comizi, commenta il professore, «tendono a generare una copertura e un’esposizione mediatica che raggiunge altri elettori, compresi quelli che potrebbero essere alla ricerca di ragioni per sostenere o opporsi a un particolare candidato». E proprio sui media si concentra la parte più corposa dello sforzo elettorale.
Le pubblicità elettorali
Social media, televisione, radio, ma anche i cartelloni pubblicitari per strada: miliardi di dollari investiti per tentare di raggiungere la platea di riferimento. Per la precisione, secondo una ricerca di AdImpact, dei 10.69 miliardi di dollari complessivi spesi per le due campagne, poco più di un miliardo è stato concentrato nei sette swing states dal 22 luglio a oggi. Rispetto alle prime previsioni, la cifra è doppia: sintomo di una corsa feroce iniziata con l’ufficialità della candidatura di Kamala Harris. Come mai? La spiegazione è pronta: «Non c’è motivo di spendere tempo e denaro per cercare voti negli Stati roccaforte», evidenzia Panagopoulos. «Se i candidati vogliono impiegare le loro risorse in modo strategico, devono farlo nei luoghi in cui potranno fare la differenza».
Secondo un calcolo di AdImpact, dal 22 luglio a oggi – da quando la corsa per la Casa Bianca è Harris contro Trump – nei sette Stati in bilico sono stati trasmessi in tv circa 330mila spot. Di questi solo 96mila finanziati dal candidato repubblicano, 234mila quelli democratici. A partire dalle pubblicità televisive, l’azienda pubblicitaria ha analizzato quali fossero i tre temi più ricorrenti in ogni singolo battleground state. I risultati sono, per certi versi, sorprendenti. In tutti gli Stati, la campagna di Donald Trump si è incentrata sui medesimi argomenti: l’elevata inflazione, attribuita alla quadriennio Biden-Harris; le politiche economiche; la crisi del settore immobiliare, con costi elevatissimi e basse disponibilità. Stupisce la completa assenza della policy contro l’immigrazione, uno dei grandi cavalli di battaglia del Great Old Party. Simile il discorso per Kamala Harris. L’aborto, grande tema di scontro con la controparte repubblicana, compare come tema ricorrente solamente nella Sun Belt (Carolina del Nord, Arizona, Nevada) e in Pennsylvania. Per il resto, è evidente l’insistenza su tre differenti promesse elettorali: la riduzione dei prezzi e delle tasse, soprattutto per le famiglie; il miglioramento del sistema sanitario e, come il rivale, del settore immobiliare.
Il caso della Pennsylvania
I dati lo evidenziano, e con questi la quantità di comizi che sia Kamala Harris che Donald Trump vi hanno tenuto: la Pennsylvania sembra essere lo Stato chiave. La candidata democratica ha già tenuto 10 rally ufficiali nel Keystone State e, sommando i suoi sforzi a quelli dei repubblicani, si contano 50 visite totali. La spesa, a livello di tempo e di fondi, non è neanche lontanamente paragonabile agli altri Stati, nemmeno ai battleground states. «È difficile concepire come una delle due campagne possa vincere senza di essa», spiega Costas Panagopoulos. «La Pennsylvania è cruciale per la sua dimensione e il numero di voti elettorali disponibili».
Vincerla però non assicura la Casa Bianca: «Gli altri swing states non sono meno importanti. Ma non vincere il Keystone State significa dover vincere altri 2 o 3 stati per recuperare i voti elettorali che la Pennsylvania garantisce». I 19 grandi elettori sono effettivamente il più alto premio tra tutti gli Stati in bilico. Il peso specifico è ancora maggiore in una lotta così tesa, e che probabilmente sarà decisa da una manciata di delegati. Nel 2020 Joe Biden conquistò la Pennsylvania solo per 80.555 voti. Quattro anni prima Trump lo strappò a Hillary Clinton con un margine ancora inferiore: 44.292. Questioni di zero virgola.