Migranti, il decreto paesi sicuri e i Cpr in Albania: «I giudici potranno negare ancora i rimpatri»
La parola chiave è «territoriale». Il decreto paesi sicuri del governo Meloni ne mette 19 in lista per recepire la sentenza della Corte di Giustizia Europea e salvare i Cpr in Albania. Ma dopo gli annunci e le sfuriate della settimana scorsa da parte di Giorgia Meloni quello che spicca è ciò che manca. Dal provvedimento legislativo che nelle intenzioni dell’esecutivo dovrebbe superare il decreto interministeriale del ministero degli Esteri è sparita la parte sui ricorsi del Viminale contro le decisioni dei giudici. Che avrebbe dovuto introdurre il grado di appello alle decisioni prima della Cassazione. In più manca qualsiasi riferimento al secondo argomento della Cge sui paesi sicuri: quello delle categorie e delle minoranze etniche e religiose vessate. Significa che i giudici potranno continuare a negare i rimpatri per quelle motivazioni.
Il decreto legge paesi sicuri
Da quella lista ora sono esclusi solo Camerun, Colombia e Nigeria. Proprio per l’eccezione territoriale che è stata l’unica considerata. E poi c’è l’assenza più significativa. Quella della premier dalla conferenza stampa che lo ha presentato. E a quella di oggi nella quale si doveva parlare anche della Legge di Bilancio. Secondo i retroscena Meloni non è soddisfatta dell’esito della parte normativa. Proprio perché non ci sono certezze sull’efficacia delle norme varate dal Cdm. Che ieri non a caso è stato al centro di un caso. La convocazione è arrivata alle ore 18,30 ma già in mattinata gli uffici di Palazzo Chigi e quelli di via Arenula erano al lavoro sul testo con il Viminale. L’ordine del giorno non è mai stato pubblicato. A causa, si dice, di un’interlocuzione piuttosto lunga con il Quirinale. Che adesso, secondo fonti parlamentari, sarebbe soddisfatto. Proprio perché la lista dei paesi sicuri per legge non cambierà molto le cose.
La lista e le eccezioni
I paesi sicuri in cui possono avvenire rimpatri dal momento della firma di Sergio Mattarella sul decreto legge sono: Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia. L’assenza di Camerun, Colombia e Nigeria è in base al criterio «territoriale»: parti del territorio di quei paesi continuano a non essere sicure. La lista sarà aggiornata «dal Parlamento» con cadenza annuale, ha spiegato ieri il sottosegretario Alfredo Mantovano. «Nel momento in cui l’elenco dei paesi sicuri è inserito in una legge il giudice non può disapplicarla», ha detto ieri il ministro della Giustizia Carlo Nordio. In realtà non è così. Nel senso che ogni giudice conserva quel diritto se ritiene quella norma contraria all’interpretazione autentica della normativa.
Vale sempre il diritto Ue
Con il dimezzamento del testo quindi il governo ha ottenuto la firma del presidente della Repubblica sul decreto legge. Ma non quello che diceva di voler ottenere. Lo spiega oggi a Repubblica Gianfranco Schiavone dell’Associazione Studi Giuridici sull’immigrazione: «Il diritto europeo in materia di asilo continua ad essere sovraordinato. Anche se la lista dei Paesi sicuri è approvata per decreto, che è norma primaria, i giudici potranno continuare a decidere di non convalidare i trattenimenti alla luce della sentenza della Corte di giustizia europea». E questo perché «la sentenza fissa dei criteri interpretativi vincolanti. È una pronuncia della Gran Camera, non appellabile, che definisce anche le competenze del giudice, chiamato a valutare se un Paese sia sicuro o meno in base ai parametri ben precisi, fissati dalla Corte stessa».
I confini da difendere?
Mentre la “confusione” sui confini da difendere non rileva: «Concedere asilo a una persona non equivale a una dichiarazione di ostilità verso il paese da cui proviene». Cosa può succedere adesso, quindi, è la domanda: «Il giudice chiamato a decidere se convalidare o meno un trattenimento, nell’ambito di una procedura accelerata di frontiera, dovrà continuare a valutare caso per caso, Paese per Paese. Qualora non lo ritenesse sicuro può disapplicare il decreto». Con una differenza: «Nel motivare non si potrà limitare a conformarsi alla sentenza della Cge, ma dovrà spiegare perché quella legge non è compatibile con la normativa europea».
Cosa succede al Cpr in Albania
Ma il punto più importante è un altro. Schiavone spiega che i giudici «se hanno dei dubbi possono sollevare una questione di illegittimità per contrasto con l’ordinamento europeo davanti alla Consulta, ma anche solo limitarsi a disapplicare il decreto». E finire alla Corte Costituzionale. In caso di ricorso alla Consulta e più ingenerale «in caso di dubbi sulla norma, il procedimento non può continuare e la persona deve tornare in libertà». Quindi comunque il trattenimento diventa inefficace: «Non potrebbe essere altrimenti se non c’è certezza sulla costituzionalità della norma».
Guadagnare tempo, perdere consenso
Ed è questo quindi l’obiettivo dell’esecutivo. Mandare il provvedimento all’esame della Consulta richiederà tempo per avere una sentenza. Sei mesi oppure dodici. Un periodo abbastanza lungo, è il ragionamento politico, per permettere la piena operatività dei centri in Albania. E che consentirà di riempirli. Mostrando così all’opinione pubblica che Meloni non ha buttato 800 milioni nel progetto. Il decreto serve a guadagnare tempo e a non perdere consenso. Poi, magari tra un anno, arriverà un giudice a bocciarlo. E così ci sarà anche un colpevole da indicare all’opinione pubblica per il suo fallimento.
Foto copertina da: Dagospia