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Chi era Moussa Diarra, ucciso da un poliziotto che minacciava con un coltello: «Poteva sparargli a un piede o un braccio»

moussa diarra ucciso coltello verona
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Arrivato dalla Libia con un barcone. Il fratello: aveva costruito una casa in Mali, voleva tornarci con la fidanzata

Moussa Diarra abitava al primo piano del Ghibellin Fuggiasco. Il suo giaciglio, fatto da una copertina rosa sui cuscini di un vecchio divano, si trova nell’edificio occupato che a Verona ospita 40 migranti che vengono da Mali, Burkina Faso, Niger, Guinea. Oggi, scrive Repubblica, a ricordare l’uomo ucciso da un poliziotto dopo un’aggressione con il coltello è un suo amico: «Siamo arrivati qui insieme a Verona. Io un anno prima, nel 2015. Stesso viaggio dal Mali attraverso l’Algeria. Poi i campi in Libia, il barcone e Lampedusa». Diarra ha lavorato nei campi di uva e mele. Con contratti di due mesi da otto o nove ore al giorno e 300 euro al mese di compenso. «E la paura che ci succeda qualcosa. L’altroieri è arrivata qui mia moglie. Mi ha detto: “Andiamo via”».

La storia, le storie

Una storia che somiglia a tante altre. Il fratello 35enne si chiama Djembagan e viene da Torino: «Sono arrivato in Italia nel 2011, prima a raccogliere pomodori nel foggiano e poi a lavorare nelle campagne piemontesi. Sono stato io a dirgli di venire qui. Lui ha preferito Verona. Aveva studiato più di me. Con la sua fidanzata avevano costruito una casa in Mali. Voleva andarci a vivere e non tornare mai più qui». Nel 2021 aveva lasciato l’Italia per le campagne di Francia e Spagna.

Poi era tornato. Aveva un permesso da richiedente asilo. Poi, da settembre, aveva cominciato ad avere problemi: «Mi chiamava per dirmi che non stava bene. Volevo venire a trovarlo per sapere cosa avesse ma non ho fatto in tempo. Lui diceva mal di testa, io insistevo: vai in ospedale o in farmacia, i soldi te li do io». Sui precedenti per droga, dice: «Ma va’. Non ci credo. Mai fumato una sigaretta né bevuto».

Non si arrabbiava mai

Un amico del fratello conferma: «Andava via quando accendevamo le sigarette. E non si arrabbiava mai. Era sempre sorridente». Moussa aveva disertato la festa organizzata in una casa occupata in zona: «Aveva caricato i suoi bagagli sul furgone, ma poi non era venuto. Era cupo, preoccupato. Da un po’ andava al Cesaim, l’ambulatorio per i migranti». Dove però, al massimo, prescrivono paracetamolo, non farmaci. «Era silenzioso», spiega Mara Mascagno, animatrice di un centro che fornisce trecento pasti al giorno, lezioni d’italiano e consulenza legale. «Non parlava dei suoi problemi ma non è mai stato aggressivo con nessuno, mai violento».

Il coltello

Il fratello dubita che Diarra avesse un coltello: «Non stanno parlando di mio fratello. Dove era questo coltello? Lo voglio sapere. Dove sono queste immagini delle telecamere? Fatemele vedere. Non mi hanno mostrato nemmeno il corpo di Moussa, all’obitorio». Secondo Djembagan «quel poliziotto ha agito come un delinquente, i veri agenti calmano le acque, disarmano le persone. Se davvero Moussa lo ha aggredito, poteva sparargli a un piede, sul braccio. È stato un criminale. Lo devono condannare, non può fare più questo mestiere».

E Salvini? «Le sue parole non valgono nulla. È un politico che non sa come funziona il mondo. Ci sono maliani buoni e cattivi, come italiani buoni e cattivi. Qualcuno razzista, come Salvini, o altri ministri. Fanno schifo. Ma gli italiani non sono tutti così. La verità su mio fratello verrà fuori, prima o poi si saprà chi era davvero. Era su una buona strada». Poi comincia a piangere: «A mia mamma non l’ho ancora detto».

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