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Chiara Dituri e la boxe: «Un pugno in testa mi ha distrutta, ma continuo. Mi dicono: “Sei carina, perché combatti?”»

23 Ottobre 2024 - 09:17 Alba Romano
chiara dituri boxe
chiara dituri boxe
Si allena nella palestra di Tyson e Alì. Dopo l'incidente è diventata ancora più veloce

Chiara Dituri è soprannominata Speedy perché sul ring è velocissima. Vuole diventare campionessa mondiale dei pesi superpiuma. Insegna educazione fisica e dopo il lavoro va alla alla Gleason’s Gym di Dumbo, a Manhattan. La palestra di Muhammad Ali e Mike Tyson. A lei è dedicato un documentario: La Santa di Brooklin, del regista italiano Ulisse Lendaro. I suoi genitori si trasferirono qui sedicenni da Mola di Bari, hanno divorziato quando lei aveva sei anni. Il padre fa l’elettricista: «Ci parliamo, ma non sempre, lui mi taglia fuori a caso e senza motivo. Ma non mi interessa, è irrilevante se mi parla o no». E lei racconta la sua storia al Corriere della Sera.

La commozione cerebrale

«Mi sentivo impotente crescendo, non mi sentivo ascoltata da mia madre. Non sono stata trascurata di proposito, ma aveva da fare: era preoccupata per mio fratello. Lui si drogava pesantemente. Mia madre cercava di salvargli la vita», dice. Durante un match ha subito una commozione cerebrale: «Il mio corpo era totalmente distrutto. Ero ipersensibile alla luce, non potevo uscire se non mi mettevo tre paia di occhiali da sole, avevo le palpitazioni, non riuscivo a camminare, ero debole, quasi costretta a letto». E spiega: «Non avevo speranze, non credevo a nessuno e non credevo che sarei migliorata. Era la fede l’unica cosa che avevo in quel momento». La riabilitazione è durata un anno e mezzo. Ora il neurologo, che la vede prima e dopo ogni match, dice che va tutto bene ma la avverte che è lei «il 50% più veloce di quanto ha bisogno di essere. Può essere vantaggioso ma…».

Troppo carina per la boxe

Chiara è passata alla boxe perché è «lo sport più violento, più duro, più pericoloso e allo stesso tempo il più eccitante. Ho sempre inseguito questa sensazione. Al mio primo match da dilettante ero spaventata: qualcuno stava cercando di picchiarmi a sangue, non mi era mai successo di sentire la mia vita in pericolo. Mi è piaciuto… È uno sport molto solitario e isolante non puoi fare quello che fanno gli altri, richiede molti sacrifici, e ci sono cose che non puoi mangiare, devi addestrarti, riposarti… tutta la mia vita segue degli orari precisi. A volte sei troppo stanca per uscire con gli amici, ho perso molti eventi familiari. All’inizio le persone non credono in te, non per via delle tue abilità, ma perché a molti questa vita non sembra normale per una donna. Ho già la mia carriera, sono un’insegnante. Mi sento dire continuamente: “Perché fai pugilato? Sei carina, puoi fare altre cose, là ti picchiano in faccia”. Sei l’unica che ha una visione più ampia, ma è qualcosa che ti dà anche potere. Non mi interessa ciò che pensano, non essere come gli altri alla fine ti fa anche sentire bene».

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