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Pechino aspetta l’esito del voto Usa per risollevare l’economia. E i cinesi trasferiscono le fortune all’estero

24 Ottobre 2024 - 18:35 Mariangela Pira
I consumatori non comprano, bisogna mettere loro letteralmente i soldi in tasca e per questo servono misure fiscali. Per sapere quali bisogna attendere il 5 novembre

Gli aiuti messi sul piatto dalla Cina per sollevare l’economia non convincono mercati e investitori. La strategia messa in atto finora è quella del freno e acceleratore, e questo sarebbe dovuto all’attesa per l’esito delle elezioni Usa 2024. «La crisi cinese, da lontano, ricorda la situazione del Giappone di trent’anni fa», spiega Filippo Di Naro, direttore investimenti Anima sgr, «ci volle molto tempo perché i consumatori giapponesi riprendessero le abitudini di consumo che avevano interrotto con una crisi del settore real estate e finanziario a fine anni Ottanta e inizio anni Novanta». I consumatori non comprano, bisogna mettere loro letteralmente i soldi in tasca e per questo servono misure fiscali.

La guerra in Ucraina

Perché dunque il governo non agisce? In primis perché per Xi Jinping il mantra è la “prosperità comune”, ovvero più che crescere, redistribuire. Ma non è solo questo. Partiamo da un presupposto: al di là degli screzi che vediamo quasi quotidianamente con gli Usa i cinesi sono più Realpolitik di quanto immaginiamo. Esempio perfetto i forti ritardi da parte di Pechino nella costruzione del gasdotto Power of Siberia 2, che permetterà a Mosca di vendere molto di più ai cinesi. Pechino pare voglia rimandare al 2025 per vedere come la nuova amministrazione Usa affronterà la guerra in Ucraina: una Russia più isolata a livello internazionale e impegnata in un conflitto oneroso potrebbe concedere alla Cina condizioni più vantaggiose nell’acquisto del gas.

Se vince Trump

Allo stesso modo possiamo leggere – come farebbero i cinesi – l’eventuale elezione di Donald Trump. «Gli annunci del tycoon su una politica dei dazi molto più pesante di quella attuale potrebbero portare ad un rigurgito dell’inflazione negli Usa, afferma Gianclaudio Torlizzi, fondatore di T-Commodity. Dazio in dogana significa sovrattassa, vuol dire che il consumatore pagherebbe un prodotto più di quanto lo paghi ora. L’inflazione porterebbe al cambiamento della politica monetaria della Federal Reserve, la banca centrale americana che ha iniziato a tagliare i tassi per abbassare il costo di finanziamento di imprese e cittadini.

L’incognita inflazione

Un ritorno dell’inflazione porterebbe il governatore della Fed Powell a smettere di abbassare il costo del denaro proprio perché costretto ad affrontare ancora una volta l’inflazione. Il dollaro di conseguenza si rafforzerebbe (tassi alti corrispondono ad un costo maggiore del biglietto verde, tassi bassi ad un suo minor valore) rispetto a valute quali, appunto, lo yuan cinese e porterebbe a un’ennesima fuga dei capitali dalla Cina. Basti vedere il grafico. Nel 2024 si verificherà il maggior deflusso dall’azionario cinese dal luglio del 2015 e le prospettive per il 2025, che si basano sullo scenario sopra evidenziato, non sono migliori. Per questo la Cina non aiuta a mani basse: se drenasse tanto denaro nell’economia e tagliasse ancora i tassi indebolirebbe la valuta. E non vuole farlo per evitare un’ulteriore fuga dei capitali.

La fuga di capitali

La preoccupazione non riguarda solo i cittadini stranieri. Gli stessi cinesi stanno trasferendo illegalmente le loro fortune altrove, come recentemente sottolineato dal Wall Street Journal. Non è facile movimentare denaro in Cina, per questo lo fanno in modo illecito. Il Paese impone rigidi controlli del capitale con un tetto individuale relativo agli acquisti di valuta straniera pari a 50mila dollari l’anno. Chi non rispetta queste regole può anche finire in prigione.

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