Elezioni Usa 2024, come si vota e come funziona il sistema elettorale americano
La sfida per la Casa Bianca è alle porte. Da una parte Kamala Harris e Tim Walz, dall’altra Donald Trump e J.D. Vance. Il rush finale verso l’Election Day del 5 novembre è l’ultima occasione che i candidati hanno per portare gli indecisi dalla loro parte. Con una particolarità delle elezioni a stelle e strisce: non vince sempre chi prende più voti. Quello che importa per accedere allo Studio Ovale, infatti, è accaparrarsi il maggior numero di delegati, i cosiddetti “grandi elettori”. A rendere ancora più unico l’appuntamento americano con le urne è il fatto che molte siano già aperte, alcune da più di un mese. Oltre al giorno elettorale per eccellenza, infatti, gli aventi diritto hanno la possibilità di voto anticipato in presenza e di voto per corrispondenza. Le schede in attesa di essere spogliate sono già oltre 20 milioni.
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Come funziona il voto negli Stati Uniti
Una elezione indiretta: il ruolo dei “grandi elettori”
Negli Stati Uniti non vince chi prende più voti. Il motivo sta semplicemente nel sistema elettorale adottato: quello indiretto. In ognuno dei 50 Stati – a cui si aggiunge il District of Columbia, il distretto dedicato alla capitale Washington – gli elettori sono tenuti a barrare sulla scheda il candidato di loro scelta. Ma si tratta, in realtà, di un voto per gli elettori di un candidato. In che senso? Ogni singolo Stato ha a disposizione dei cosiddetti “grandi elettori”, il cui numero varia in base a dimensione e abitanti del territorio. Ad esempio con l’ultimo censimento, datato 2020, il Texas ha guadagnato due delegati, mentre California e New York ne hanno perso uno. I candidati alla Casa Bianca, quindi, si sfidano in 51 battaglie differenti e contemporanee: per vincere uno Stato, e dunque guadagnarne tutti i delegati, basta conquistare la maggioranza relativa dei voti. Un sistema denominato winner-take-all che trova solo due eccezioni. In Nebraska e Maine l’assegnazione dei grandi elettori avviene tramite un metodo ibrido, noto come split electoral vote, per certi versi simile al nostro sistema proporzionale. Due grandi elettori sono infatti attribuiti con il metodo americano tradizionale. I rimanenti delegati (2 per il Maine, 3 per il Nebraska) sono invece assegnati in base a chi vince in ogni distretto congressuale dello Stato. Da qui l’espressione “split vote”, voto disgiunto: non è detto, infatti, che tutti i delegati vadano al medesimo candidato.
Il traguardo dei 270 delegati
I voti degli aventi diritto vanno quindi ad appoggiare una lista di delegati, che già in precedenza si sono pubblicamente impegnati a sostenere uno o l’altro candidato. Per un totale, alla fine dello spoglio, di 538 grandi elettori. Per guadagnarsi la Casa Bianca basta dunque accumulare un numero sufficiente di delegati. Il numero chiave da raggiungere è 270, la maggioranza semplice. È proprio a partire da questo numero che le varie campagne elettorali decidono su quali Stati puntare di più e su quali di meno. L’elezione ufficiale del Presidente avviene poi un mese e mezzo dopo il giorno delle elezioni: il 17 dicembre i grandi elettori, ognuno nel proprio Stato, si riuniscono ed esprimono il loro voto. In presenza di soli due candidati forti, come nel caso di Trump e Harris, è poco più che una formalità. A questo punto mancano solo due passi. Il 6 gennaio 2025, durante una sessione congiunta del Congresso, avviene il conteggio ufficiale dei voti dei delegati. Due settimane dopo, il 20 gennaio, il 47esimo presidente degli Stati Uniti si insedia nella Casa Bianca: è l’Inauguration Day.
Nel caso in cui nessun candidato riesca a raggiungere quota 270 preferenze, la palla passa alla Camera dei Rappresentanti: viene dunque oltrepassato l’istituto dei collegi elettorali. Al Congresso si tiene un “voto speciale”. Ogni Stato, tramite la sua delegazione nominata nelle elezioni locali, esprime un unico voto. Il District of Columbia, invece, non ha questa possibilità e perde così il suo peso. Il voto è a maggioranza semplice. Contemporaneamente, il Senato ha il compito di indicare il vicepresidente con un metodo di voto individuale: non conta lo Stato, ma il singolo senatore. Si parla in questo caso di “elezioni contingenti”: l’ultima risale al 1837.
Il peso (quasi) nullo del voto popolare
Il sistema elettorale indiretto priva completamente il voto popolare del suo peso. Ovviamente, in caso di vittoria schiacciante a livello nazionale per un candidato è difficile pensare a una sua sconfitta. Ma quando la differenza tra le preferenze non è troppo ampia, l’equazione non è automatica. Nel 2016 Hillary Clinton guadagnò addirittura 3 milioni di voti in più rispetto al rivale Donald Trump. Fu, però, quest’ultimo a diventare il 74esimo presidente degli Stati Uniti: pur essendo in svantaggio nel voto popolare, aveva accumulato ben 74 elettori in più vincendo negli Stati chiave. L’eventualità, meno rara di quanto si possa pensare, si era presentata nel 2000 in occasione della risicata vittoria di George W. Bush contro il democratico Al Gore. Al termine dello spoglio i due candidati erano separati da 540mila voti. E ancora prima -ma bisogna tornare al XIX secolo – nel 1824, nel 1876 e nel 1888.
Il voto per le elezioni Usa 2024
Quando si vota? E perché proprio di martedì?
L’Election Day americano è fissato per legge il «martedì dopo il primo lunedì di novembre». In questo caso, i seggi saranno aperti il 5 novembre. Ma perché proprio il martedì? L’origine è proprio nella normativa che ha stabilito il giorno delle elezioni. Approvata nel 1845, ai tempi dell’undicesimo presidente americano James Knox Polk, uniformò per la prima volta l’Election Day per l’intero Paese. Siccome gli Stati Uniti erano ancora una società prevalentemente agricola, la scelta del mese cadde sull’inizio di novembre: uno dei periodi meno carichi di lavoro dell’anno, essendo al termine della stagione estiva e prima della semina invernale. Votare la domenica era impossibile perché era giorno di riposo e di culto. Di mercoledì anche, siccome in quasi tutte le cittadine era il giorno del mercato. Data la necessità di muoversi per raggiungere i seggi, lunedì e giovedì non erano opzioni praticabili perché servivano come «giorni di spostamento». Insomma, la decisione alla fine ricadde sul martedì. Con la specifica («il martedì dopo il primo lunedì di novembre») per evitare che le elezioni potessero cadere il 1° novembre, giorno di festa per la solennità di Ognissanti.
Come si vota?
Sono tre le modalità di voto: in presenza, via posta e tramite il cosiddetto early voting. Se per il voto più classico il giorno stabilito – come abbiamo visto – è il 5 di novembre, la presenza di altre due possibilità modifica di conseguenza anche il calendario elettorale. Il mail voting è una pratica ammessa in tutti gli Stati, anche se in alcuni è necessaria una motivazione valida (malattia, lavoro). Chiunque ne faccia richiesta, riceve a casa la scheda elettorale che compilerà e rispedirà per posta. Per evitare il sovraccarico del servizio postale, la possibilità di absentee voting apre molto prima rispetto all’Election Day. Ogni Stato ha il diritto di stabilire la data di inizio: quest’anno la Carolina del Nord ha inaugurato la stagione elettorale il 6 settembre, mentre i cittadini dello Stato di Washington si sono trovati la scheda elettorale a casa solo a partire dal 18 ottobre.
Il voto via posta pone però una serie di problemi. A partire dal conteggio dei voti. In ben 23 Stati l’arrivo della scheda compilata è ammesso anche dopo l’Election Day, a patto che il timbro sia stato apposto entro il 5 novembre. Per un totale di 317 grandi elettori su 538: in poche parole, il 59% dei delegati potrebbe non essere assegnato durante la notte elettorale. Addirittura lo Stato di Washington permette un periodo di tolleranza di quasi tre settimane: gli ultimi spogli si terranno il 23 novembre. Il partito repubblicano, nonostante una intensa campagna per spingere i suoi sostenitori a votare anche via posta, ha ripetutamente attaccato questo metodo. Per Donald Trump è «stupido» e «fraudolento», perché i corrieri postali potrebbero «perdere centinaia di migliaia di schede, anche di proposito».
C’è poi la possibilità – in quasi tutti gli Stati – di votare in presenza prima dell’Election Day. È il cosiddetto early voting. I seggi hanno aperto per primi in Minnesota, Virginia e Dakota del Sud il 20 settembre. In tutti gli Stati le procedure di early voting chiudono entro del 4 novembre, il grande giorno elettorale. Uniche eccezioni Colorado, Alaska, Washington e Hawaii: qui la possibilità di voto non si interrompe mai prima dell’Election Day. In totale, i due metodi alternativi quest’anno sono stati richiesti o già utilizzati dal 28% degli aventi diritto. Il loro enorme successo è dovuto al fatto che permettono a chiunque di scegliere quando esprimere la propria preferenza. Sono già quasi 15 milioni le schede elettorali compilate in attesa di essere scrutinate. In Georgia oltre 330mila persone hanno usufruito dell’apertura anticipata dei seggi.
Gli altri appuntamenti: primarie, caucuses e Super Tuesday
Per arrivare al giorno del voto, il percorso è ben più lungo. Ogni partito, esclusi coloro che corrono come indipendenti, deve arrivare all’Election Day avendo definito un unico candidato. Nel periodo delle primarie, a partire da una decina di mesi prima della grande notte, Stato per Stato gli elettori vanno alle urne per indicare il loro candidato preferito. Una volta raccolte le preferenze, lo Stato assegna – ognuno con le sue regole – ai vincitori un certo numero di delegati. Questi, in occasione delle national convention, hanno il compito di conferire il cosiddetto ticket presidenziale a chi rappresenterà il partito nella corsa alla Casa Bianca. Questo processo di scelta è praticamente una versione intra-partito delle elezioni vere e proprie, al netto di lievi differenze in tempi e modalità. Si pensi ai “super-delegati” democratici, elettori aggiuntivi non vincolati a nessun candidato specifico e quindi liberi di esprimere la loro preferenza sostenendo chi li convince di più. La convention è anche l’occasione in cui il vincitore ufficialmente nomina il suo vice-presidente, che da quel momento in poi lo affianca in campagna elettorale.
La scelta del candidato
Per arrivare alla nomina dei candidati allo Studio Ovale, bisogna per l’appunto passare attraverso una lunga trafila di urne. Queste si possono configurare in due differenti modi: le più classiche elezioni primarie e i cosiddetti caucus. Le primarie sono vere e proprie elezioni – a voto segreto – organizzate dalle amministrazioni locali e statali. I caucus, che risalgono addirittura all’epoca della prima elezione di George Washington nel 1789, sono invece incontri organizzati dal partito stesso. In alcuni casi si vota su schede elettorali, in altri i partecipanti si dividono in gruppi in base al candidato che sostengono. I caucus più celebri sono quello dell’Iowa, che apre la stagione elettorale, Nevada e Wyoming. Nella maggioranza degli Stati – come Florida, California, Texas e New York – è adottato il sistema delle primarie.
L’appuntamento delle primarie e dei caucus non è sempre per tutti: nelle cosiddette “primarie chiuse” possono votare solo gli iscritti al partito, in quelle “aperte” chiunque può invece dire la sua. Il calendario è abbastanza fitto: a partire da gennaio fino, all’incirca, a metà giugno. Fondamentale, in ottica Casa Bianca, è quello che si potrebbe considerare l’Election Day delle primarie: il Super Tuesday. Durante lo stesso martedì (generalmente il primo di marzo) una quindicina di Stati si recano alle urne per assegnare più di un terzo dei delegati. Al termine del lungo processo di voto, ogni partito organizza la sua national convention. Qui è ufficializzato il ticket presidenziale: chi correrà per la Casa Bianca e chi sarà il suo vice.
Delle primarie particolari
Le elezioni 2024 hanno completamente sovvertito il processo tradizionale. A partire dal fatto che Donald Trump e Joe Biden non avevano veri avversari da battere per guadagnarsi l’appoggio del partito. Se è vero che l’attuale presidente aveva già guadagnato un numero sufficiente di delegati il 12 marzo, una settimana dopo il Super Tuesday, Donald Trump ha fatto ancora meglio. Davanti a sé aveva due candidati di rilievo come la ex governatrice della Carolina del Nord Nikki Haley e l’attuale governatore della Florida Ron DeSantis. Eppure, in data 7 marzo, chiunque avesse provato sfidarlo aveva già ritirato la sua candidatura. Trump, 244 giorni prima dell’Election Day, era già l’unico a essere rimasto in piedi: meglio di lui, per un solo giorno, John McCain nel 2008.
Il secondo momento di grande rottura è stato il ritiro di Joe Biden. E la rapidità con cui Kamala Harris è riuscita a succedergli nella candidatura. Shane Goldmacher sul New York Times racconta che nelle prime 10 ore dopo l’endorsement del presidente alla sua vice, Harris aveva già fatto 100 chiamate a potenziali avversari e a democratici di spicco. In due giorni, forte anche di decine di milioni di dollari ereditati dalla campagna di Biden e di una nuova ondata di donazioni, Kamala Harris si era assicurata 3.100 delegati su 3.932. Robby Mook, manager della campagan di Hillary Clinton nel 2016, le ha definite «48 ore perfette».