La giravolta di Spano, gli sprechi al Maxxi, il «pasticciaccio» sul Futurismo: a Report va in scena il processo a Giuli (e Sangiuliano)
Il «nuovo caso Boccia al maschile»? Un’iperbole per bollare la vicenda sviluppatasi attorno alla maxi-mostra sul Futurismo in programma alla Galleria d’arte moderna di Roma. Perché, è il parallelo tracciato, anche in questo caso una collaborazione di peso col ministero della Cultura è stata stracciata sul più bello: quella col critico d’arte Alberto Dambruoso. Ma le somiglianze col caso dell’influencer di Pompei, con ogni evidenza, si fermano qui. Quella che va in onda domenica sera a Report al culmine di una settimana di anticipazioni, sospetti e colpi di scena, è un’ora di «processo» al ministro della Cultura Alessandro Giuli. Ma pure al suo predecessore Gennaro Sangiuliano e alla loro gestione di una serie di grandi progetti all’alba dell’era Meloni: dal Maxxi alla Gnam, appunto. Gli addebiti che emergono vanno dagli echi di cultura neopagani, esoterici o neonazisti alla gestione economica fallimentare, sino alle pressioni indebite esercitate da personaggi della destra romana al di fuori dei circuiti ufficiali del ministero.
La militanza giovanile e i numeri del Maxxi: processo a Giuli
A Giuli Report addossa in primis la “colpa” di aver iniziato il suo percorso di militanza politica in Meridiano Zero, un movimento politico considerato pericolosamente vicino al neonazismo. «Era tra i giovani più brillanti», conferma al programma di Rai 3 il fondatore del movimento Rainaldo Graziani, figlio di quel Clemente che fondò Ordine Nuovo. Ma il focus è sulla sua carriera più recente: quella di alto dirigente culturale caro a Meloni e ai suoi. Peccato, ricostruisce Report, che alla guida del Maxxi di Roma Giuli abbia fatto un mezzo disastro. Un avvio da incubo con la serata a base di volgarità e improperi con Morgan e Vittorio Sgarbi, finito con le minacce ai dipendenti che avevano protestato. E una gestione chiusa con un crollo di incassi, biglietti staccati e mostre organizzate rispetto alla gestione precedente, quella di Giovanna Melandri. Tanto che Giuli non avrebbe neppure mai presentato, come avrebbe dovuto, il documento di programmazione artistica 2023-24. Giuli però la vede in un altro modo, e lo dice a Giorgio Mottola di Report. «Il Maxxi ha appena fatto il record storico di visitatori con “Environment 2”. Poi son diventato ministro», rivendica con un sorriso. Ma per Report è inspiegabile pure la scelta, attribuita da testimoni proprio a Giuli, di rinunciare a un contributo da 2,5 milioni già stanziato dal ministero delle Imprese e del Made in Italy per un progetto d’innovazione con la Sapienza e il centro ricerca Sony. Perché Giuli sfilò il museo da quella cordata, proprio mentre partecipava ad un altro bando per consentire ai visitatori tramite la realtà aumentata di esplorare da remoto stanze del Vittoriale di D’Annunzio?
Le mosse di Spano, le dimissioni e i veleni dentro FdI
Secondo dipendenti anonimi che parlano a Report, la verità è che Giuli «non sapeva come gestire il museo». Per questo si affidò in toto a Francesco Spano, l’ex fedelissimo di Giovanna Melandri che, riassume una voce, «fece una giravolta di 360 gradi e divenne la sua eminenza grigia dentro al Maxxi». La storia della consulenza fatta avere da Spano a Marco Carabuci, avvocato ma anche suo compagno, ha riempito tanto le pagine dei giornali nei giorni scorsi che non fa quasi più notizia. Se non per ricordare che le indiscrezioni hanno portato al crollo di Spano e alle sue dimissioni. Per via dell’inchiesta di Report? Macché, affonda Sigfrido Ranucci. A farlo capitolare, come sembra dire tra i denti lo stesso Giuli, sono state con ogni probabilità le chat al veleno sul suo contro dentro Fratelli d’Italia. Anche con accuse omofobe irripetibili.
Il «pasticciaccio» della mostra sul Futurismo
Il caso cui Report dedica più spazio, alla fine, si rivela essere proprio quella della mostra sul Futurismo in preparazione alla Gnam di Roma. Caso anche questo già ampiamente anticipato dai giornali. Secondo il programma rappresenta un vero e proprio «pasticciaccio a base di gaffe e conflitti d’interessi», paradigmatico dello stile di governo della destra di Meloni. Prima Gennaro Sangiuliano tagliò i ponti col professor Fabio Benzi, rinunciando all’ipotesi di importare a Roma «chiavi in mano» una mostra già allestita al Kroller Museum in Olanda. «Dobbiamo farla noi», venne fatto sapere a Benzi. Qualsiasi cosa volesse dire. E così, a quanto emerge, Sangiuliano trova l’idea vincente sfogliando una mattina il quotidiano Il Tempo. Nelle pagine culturali c’è una bella recensione di un libro su Boccioni di un certo Alberto Dambruoso, docente di Storia dell’arte all’Accademia di Belle Arti di Frosinone. Detto fatto, Sangiuliano chiama l’autore dell’articolo, il giornalista Gabriele Simongini, e gli affida l’organizzazione della grande mostra. E gli chiede di farsi affiancare proprio da Dambruoso. Qualcosa però nel tempo prende un’altra piega – vuoi perché i costi previsti iniziano a lievitare, vuoi per altri motivi. Fatto sta che dopo mesi che i due sono già al lavoro viene instaurato un comitato scientifico, di cui fa parte pure lo stesso Giuli, che in breve esautora Simongini e Dambruoso.
Le pressioni politiche e l’allontanamento di Dambruoso
Il comitato fa tagliare con l’accetta la lista di opere previste (300 su 650), dopodiché ad entrare in partita con suggerimento su altre opere da esporre sono i personaggi più improbabili: dal vignettista Osho, al secolo Federico Palmaroli, sino allo stesso Sangiuliano. «Non l’ha fatto mai neanche Mussolini», attacca ancora Benzi. Nel frattempo si muovono dietro le quinte pure altri personaggi. Tra cui un noto gallerista romano, Fabrizio Russo, che potenti di FdI (Federico Mollicone) vorrebbero favorire sempre rispetto al parco di opere che saranno messe in mostra. Lo dimostrano, secondo Report, diverse chat. Lui nega gli addebiti, così come l’accusa di essere posizionato così a destra da fare a volte il saluto romano ad amici di un certo orientamento che entrano nella sua galleria. Fatto sta che alla fine Dambruoso viene convocato dal capo segreteria di Sangiuliano, Emanuele Merlino, che lo allontana definitivamente motivando la scelta con presunte «voci irriguardose a suo riguardo». Dopo un anno a Dambruoso viene dato il benservito, senza che gli sia versato neppure un euro. Dambruoso racconta tutto a Report. «Ecco il secondo caso Boccia», chiude il cerchio Ranucci. Anche se i due casi sono molto diversi.
Le anticipazioni e la trincea di Giuli
L’ondata di anticipazioni sui contenuti del programma d’inchiesta di Rai 3 era cominciata già cinque giorni fa, quando a Un giorno da pecora Sigfrido Ranucci aveva preannunciato che avrebbe alzato il coperchio su «un nuovo caso Boccia al maschile» al ministero della Cultura. Erano bastate le voci incontrollate subito diffusesi a portare alla prima conseguenza concreta: le dimissioni del capo di gabinetto del ministero della Cultura. Troppo forti le polemiche sul presunto conflitto d’interessi per l’affidamento di una consulenza di peso al compagno Marco Carnabuci, troppo pesante il clima sul caso dentro Fratelli d’Italia, che già aveva digerito malissimo la nomina di Spano al timone del ministero. Poi Ranucci aveva rincarato la dose, promettendo che gli scoop non finivano lì. «C’è anche un altro caso Giuli», aveva spifferato, dando il via di nuovo a una ridda di ipotesi, spettri e ricostruzioni. Tanto da costringere il ministro della Cultura a cambiare linea rispetto all’iniziale ridimensionamento della vicenda a «chiacchiericcio». «Guarderò la puntata in diretta al telefono con il mio legale», ha fatto sapere. Mentre ha lasciato intendere a chi gli è più vicino di non escludere più nemmeno l’azione più forte: le dimissioni.