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Il palazzo a Londra e il peculato «senza scopo di lucro»: le motivazioni della sentenza di condanna al cardinale Becciu

30 Ottobre 2024 - 16:34 Alba Romano
cardinale angelo becciu peculato senza lucro tribunale vaticano
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Sono 819 pagine in cui la magistratura della Santa Sede ripercorre la rete di investimenti speculativi che girava intorno all'ex Sostituto della Segreteria vaticana

È stata confermata l’accusa di peculato a danno del cardinale Angelo Becciu, pur «senza finalità di lucro». Lo si apprende dalle motivazioni della sentenza depositate dal Tribunale vaticano: in totale 819 pagine che ripercorrono passo dopo passo tutti i risvolti della complessissima rete di speculazioni finanziarie e intrighi che ha interessato la Santa Sede dal 2011. Secondo i magistrati, l’investimento nel palazzo di Londra di Sloane Avenue fu un semplice azzardo. Ma, per le leggi vaticane, il reato di peculato sussiste pur senza che l’imputato abbia personalmente intascato i soldi. Insieme al cardinale, ex Sostituto per gli Affari generali della Segreteria di Stato, sono stati condannate altre sei persone. I reati variano dall’uso illecito di fondi, all’autoriciclaggio fino a estorsione e truffa aggravata.

Il tribunale: «Concesso il diritto al contraddittorio»

Una vicenda che si districa lungo tutto lo scorso decennio, e che ha avuto una lunghissima vita anche nelle aule del Tribunale vaticano. La condanna del tesoriere vaticano a 5 anni e mezzo, definitiva dallo scorso dicembre, è arrivata dopo 86 udienze durante le quali – specifica il magistrato presidente Giuseppe Pignatone – è stato garantito il giusto processo agli imputati «nella convinzione che il contraddittorio tra le parti è il metodo migliore per raggiungere la verità processuale». Respinte, insomma, le accuse di aver violato la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e in particolare il suo articolo 6, tramite cui le difese avevano chiesto venisse dichiarata «la nullità della citazione a giudizio».

L’operazione Falcon Oil-Gof e quei 200 milioni nel petrolio angolano

Per il cardinale Angelo Becciu è dunque confermata la condanna per peculato, nonostante allo stesso imputato non ne sia venuto nulla in tasca. Il Tribunale vaticano si richiama alla Corte di Cassazione italiana, secondo la quale il reato sussiste anche quando il pubblico amministratore «impiega le risorse finanziarie a sua disposizione per acquistare, in violazione di norme di legge e di statuto, quote di fondi speculativi». Tradotto: Becciu non ci ha guadagnato, ma il reato permane perché soldi della Santa Sede sono stati investiti in maniera non oculata in un fondo ad alto rischio. Il riferimento è all’operazione Falcon Oil-Gof: nel 2014 Becciu investì 200 milioni di dollari (un terzo dei fondi a disposizione della Segreteria) nel Global Oportunities Fund del finanziere Raffaele Mincione, anche lui condannato per peculato. Un affare che nasceva, appunto, dalla volontà di acquistare una quota della società petrolifera angolana Falcon Oil, di proprietà del businessman Antonio Mosquito.

Ma il tribunale ribadisce: «La finalità di lucro è del tutto estranea alla fattispecie di peculato prevista dall’ordinamento vaticano». Il reato, infatti, sussiste dal momento che emerge «la volontà di usare i beni in contrasto con gli interessi» della Santa Sede. E, in questo caso, dando enormi vantaggi al finanziere Mincione tramite una condotta illecita. L’amministratore vaticano, ricorda il tribunale, deve mirare alla «conservazione del patrimonio», e quando investe denaro deve farlo tenendo conto del quoziente di rischio, dell’entità dell’investimento e della possibilità di mantenere il controllo della gestione dell’operazione. Tre parametri che, uno per uno, Becciu avrebbe completamente ignorato negli affari con Mincione. E ad aggravare la situazione il fatto che, dopo il fallimento dell’Operazione Angola, nessuno abbia «almeno tentato» di chiudere il rapporto con Mincione «uscendo dal fondo Gof».

L’investimento londinese di Sloane Avenue

Nel cosiddetto «Sistema Becciu» erano coinvolti numerosissimi elementi. A partite dal finanziere ex Credit Suisse Enrico Crasso, condannato per autoriciclaggio, ai più stretti collaboratori del cardinale. Questi si resero protagonisti del caso Sloane Avenue. Nel 2014 la Santa Sede acquistò un palazzo a Londra, al civico 60 di Sloane Avenue, per 300 milioni di euro. Una cifra molto superiore al valore dello stabile. A insospettire la magistratura fu la cessione della società Gutt (che controllava il palazzo) di 30mila delle 31mila azioni alla Segreteria di Stato. Le mille azioni nelle mani di Gutt erano, però, le sole con il diritto di voto. In poche parole, la Segreteria di Stato – nonostante l’esborso – non aveva il minimo controllo dell’immobile. Una situazione che non era stata resa chiara al successore di Becciu, il Sostituto Edgar Peña Parra, che anzi era stato convinto di essere «l’unico beneficiario economico della Gutt». Ma la situazione era esattamente opposta. Per questo Mincione, tramite della Santa Sede, e Gianluigi Torzi, della Gutt, sono stati condannati per truffa aggravata. Il secondo anche per estorsione, avendo fatto pagare alla Segreteria di Stato «un corrispettivo non dovuto» per un bene che era in realtà di proprietà della Segreteria stessa.

Marogna e i parenti: centinaia di migliaia di euro per mantenere la sua cerchia

Nelle 819 trovano spazio anche l’affare Marogna e i giri di finanziamenti di Becciu diretti ai suoi parenti. Secondo il tribunale, il cardinale sarebbe stato a conoscenza che i 600mila euro elargiti a Cecilia Marogna, giustificati come riscatto per il rilascio di una suora rapita in Mali, sarebbero stati usati da Marogna per acquistare borse di Prada e Louis Vitton, una poltrona Frau e cosmetici Chanel. Oltre ad essersi pagata soggiorni a Ibiza, Bormio e alle Terme di San Pellegrino. Una consapevolezza che nasce dal fatto che, dopo un primo investimento a una agenzia inglese, la seconda tranche fu versata a una società slovena costituita ad hoc e facente capo esclusivamente a Cecilia Marogna.

Riguardo alle centinaia di migliaia di euro in favore del fratello Tonino (ma anche degli altri due Mario e Francesco), il tribunale ha nuovamente ribadito la condanna per peculato. La motivazione è la semplice violazione dell’articolo 176 del codice penale vaticano: «I beni ecclesiastici non devono essere venduti o locati ai propri amministratori o ai loro parenti fino al quarto grado di consanguineità o di affinità senza una speciale licenza data per iscritto dall’autorità competente». Una licenza che, nel caso dei finanziamenti dati alla Cooperativa Spes per ammodernare un forno e ampliare le sue attività, era completamente inesistente.

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