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Elezioni Usa 2024, in dieci Stati si vota anche sull’aborto: l’ambiguità di Trump e le promesse di Harris sul corpo delle donne

04 Novembre 2024 - 22:58 Alessandra Mancini
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Cavallo di battaglia per i democratici, tema scivoloso per i repubblicani: i due candidati alla Casa Bianca hanno posizioni agli antipodi sull'interruzione volontaria di gravidanza

Le elezioni presidenziali americane di martedì 5 novembre si giocheranno anche sul corpo delle donne. Il tema dell’accesso all’aborto è stato uno dei dossier più discussi della campagna elettorale Usa, tornato centrale nel dibattito dopo che la Corte Suprema nel 2022 ha eliminato il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza a livello federale. Kamala Harris e Donald Trump promettono due distinte visioni sulla tutela dei diritti riproduttivi. Se da una parte la democratica tira dritto sulla libertà di autodeterminazione delle donne (molto più di Joe Biden, che era un cattolico praticante), il repubblicano – che rivendica la nomina dei tre giudici della Corte Suprema, che ha abrogato la garanzia federale – fa fatica a esprimere posizioni nette rischiando di scontentare tutti.

I referendum sull’aborto in 10 Stati

La legislazione proibizionista introdotta in diversi Stati, dopo il ribaltamento della sentenza Roe vs Wade del giugno 2022 che ha posto fine al diritto all’aborto a livello nazionale e ha demandato la questione ai singoli Stati, non piace a una larga maggioranza di elettori ed elettrici del Grand Old Party, che potrebbero non votare repubblicano. Secondo Pew Research, il 63% degli americani (6 su 10) sostiene infatti l’aborto legale in quasi tutti i casi. E tale posizione verrà, con ogni probabilità, palesata nei referendum – organizzati in dieci Stati lo stesso giorno delle presidenziali – per inserire il diritto all’aborto nella Costituzione. La consultazione popolare è prevista in Arizona e Nevada (due dei sette swing state), Florida, Nebraska, South Dakota, Missouri (tutti Red States) e New York, Maryland e Colorado (Blue States dove l’aborto è già legale, ma verrebbe rafforzato). In molti Stati Usa i pro-life stanno tentando di boicottare i referendum in tutti i modi, tra cui convincere gli elettori che l’iniziativa popolare priverebbe i genitori del loro diritto di prendere decisioni per conto dei propri figli come ad esempio sui trattamenti ormonali di affermazione di genere.

Leggi la nostra guida alle elezioni Usa 2024

In principio c’era la Roe vs Wade

Oltre un anno fa la Corte Suprema, a maggioranza conservatrice, ha rovesciato la storica sentenza Roe vs Wade del 1973 che sanciva il diritto all’aborto a livello federale. A oggi sono infatti i singoli Stati che hanno il potere di decidere se e come vietare o limitare l’interruzione volontaria di gravidanza. In 13 Stati vige un divieto praticamente totale (Alabama, Arkansas, Idaho, Indiana, Kentucky, Louisiana, Mississippi, Missouri, Oklahoma, South Dakota, Tennessee, Texas, West Virgina). In Florida, Georgia, Iowa, South Carolina hanno imposto una scadenza a sei settimane di gestazione, che spesso corrisponde a un divieto totale. Nebraska e North Carolina a 12 settimane; Arizona a 15; Utah a 18. In Montana e Wyoming il divieto all’interruzione volontaria di gravidanza è stato bloccato dai giudici. Nei rimanenti Stati l’aborto è invece legale.

Aumentano gli aborti e le morti infantili

Eppure la sentenza sul caso Dobbs contro Jackson Women’s Health Organization non ha sancito la fine dell’accesso all’aborto. Anzi, secondo il nuovo report del progetto di monitoraggio sulle interruzioni volontarie di gravidanza WeCount della Society of family planning il numero medio di aborti negli Stati Uniti nel 2024 è superiore del 20% rispetto al 2022, anno in cui la Corte Suprema ha ribaltato la Roe. Nei primi sei mesi del 2024 la media mensile degli aborti si attesta a circa 98mila interruzioni volontarie di gravidanza, nel 2023 erano 88mila e un anno prima 81mila. La telemedicina – si legge nel rapporto – ha consentito alle donne che vivono negli Stati anti-abortisti di rivolgersi a fornitori di pillole abortive fuori dai confini, che sono protetti dalle cosiddette leggi scudo appena emanate. Nel South Dakota – che nel 2022 ha vietato l’aborto tranne nei casi in cui la vita della madre è in pericolo – il numero di aborti è raddoppiato.

Negli States non sono soltanto gli aborti ad aumentare, ma anche le morti infantili (bambini di età inferiore a 1 anno). A renderlo noto è uno studio pubblicato su Jama Pediatrics che ha rilevato una crescita del 7% della mortalità infantile post-Dobbs. La maggior parte dei decessi ha riguardato bambini nati con «anomalie congenite», come precisano i ricercatori. I due dati sembrano a prima vista contraddittori: se aumentano gli aborti, il tasso di bambini nati con malattie congenite alla nascita non dovrebbe diminuire? Come scrive Bloomberg, l’aumento degli aborti è dovuto in gran parte alle pillole abortive prescritte tramite, appunto, telemedicina. Ma nella maggior dei casi, tale farmaco viene assunto entro le 10-12 settimane di gravidanza. E molte malformazioni vengono rilevate tra la 18esima e la 22esima, a volte anche più tardi. In queste circostanze, l’aborto farmacologico non è più un opzione. Chi vuole interrompere una gravidanza deve spostarsi, nel caso in cui si risiede in uno Stato anti-abortista, in un’altra città. Ma non tutte le donne possono permetterselo. Da qui l’aumento della mortalità infantile dovuta ad anomalie congenite in un momento in cui i divieti sull’aborto stanno diventando sempre più severi.

Le prime elezioni dopo il ribaltamento della Roe vs Wade

La posizione (netta) di Kamala Harris sull’aborto

Tra i due candidati alla presidenza Usa, Kamala Harris ha dimostrato, nel corso della sua campagna elettorale, una «convinzione incrollabile» sul tema dell’aborto, scrive il New York Times. Contro il ribaltamento della Roe ws Wade, definito dalla stessa «immorale» e pro-libertà di autodeterminazione delle donne. Nel 2004 l’ex vicepresidente, all’epoca procuratrice distrettuale di San Francisco, era scesa in strada per protestare contro la firma dell’allora presidente George W. Bush alla legge che limitava l’aborto e permetteva di perseguire penalmente i medici che lo praticavano. Vent’anni dopo, Harris ha fatto del diritti all’aborto un tema cruciale della sua campagna elettorale.

Nelle ultime settimane prima dell’Election Day ha infatti spinto sull’acceleratore – consapevole della sua forza (anche) in quanto donna e democratica – in materia di interruzione volontaria di gravidanza. Durante il comizio in Texas di venerdì scorso, dove era presente la popstar Beyoncé, Harris ha messo in guardia gli americani: «Siamo chiari: se Donald Trump vince di nuovo, proibirà l’aborto in tutto il Paese», il messaggio della democratica dal palco di Houston, prima di descrivere le conseguenze dei divieti sull’aborto. Come quello in Texas, tra i più repressivi, che proibisce ai medici di eseguire aborti – dopo che è stata riscontrata “attività cardiaca” – già a sei settimane di gestazione. Ma di tutti i discorsi sull’interruzione volontaria di gravidanza durante il tour elettorale, ce n’è uno in particolare che ha centrato la questione. Ma (spoiler) non è stato pronunciato da Harris, bensì da Michelle Obama – sostenitrice della democratica – in Michigan. L’eloquio dell’ex first lady è stato così potente anche perché indirizzato a tutti gli uomini, messi in guardia dalla stessa «sui rischi che l’elezione di Trump comporterebbe per le donne che amano e per la parità di genere».

Nonostante Michelle Obama abbia scritto il discorso più coinvolgente sull’interruzione volontaria di gravidanza, Harris è stata la prima vicepresidente nella storia a visitare una clinica per aborti in Minnesota. Ancor prima della nomina a presidente, si è inoltre espressa – attaccando il repubblicano – sulla decisione della Corte Suprema di mantenere il pieno accesso alla pillola abortiva. «Questa decisione non cambia il fatto che milioni di donne sono sottoposte a divieti crudeli a causa di Donald Trump», ha affermato la vicepresidente. In quell’occasione, i giudici hanno respinto un ricorso presentato da associazioni di medici e attivisti per limitare l’accesso al mifepristone, usato nella maggior parte degli aborti. Era già chiara la direzione sui diritti sessuali e riproduttivi della dem.

Cosa farà se verrà eletta Kamala Harris

Se eletta, Harris si batterà per tornare a dove gli Stati Uniti «erano prima della sentenza Dobbs», ha affermato in un’intervista a Face the Nation, programma della Cbs. «Quando il Congresso approverà la legge per ripristinare le libertà riproduttive, come presidente degli Stati Uniti, la firmerò», è il messaggio lanciato dal palco di un comizio a settembre. Sul sito web della sua campagna si legge: «La vicepresidente Harris e il governatore Walz confidano che le donne prendano decisioni sul proprio corpo e non che sia il governo a dire loro cosa fare». Più in generale, la democratica ha più volte affermato di sostenere il diritto delle donne all’autodeterminazione e, nel suo discorso alla convention democratica di agosto, ha lamentato il fatto che – dopo il cambio di rotta del 2022 – molte coppie sono state costrette a interrompere i trattamenti per la fecondazione in vitro (il metodo che permette la fecondazione degli ovuli con spermatozoi fuori del corpo della donna).

È chiaro, quindi, che il tema dell’aborto e dei diritti riproduttivi potrebbe cambiare l’esito delle elezioni. E i repubblicani lo sanno. Nei giorni scorsi è diventato virale sui social il video di un elettore conservatore (54 milioni di views solo su X) che prende in giro le giovani donne pro-choice: «Le donne universitarie ammettono di votare per Kamala solo per l’aborto», dice il content creator nel filmato. E, in effetti, potrebbe non avere tutti i torti. Il sentiment è che molte elettrici – democratiche o repubblicane — potrebbero esprimere la propria preferenza per la vicepresidente proprio per le sue posizioni sui diritti riproduttivi. In Iowa (che è uno Stato rosso), ad esempio, i sondaggi danno Harris avanti di 3 punti su Trump (47% a 44%) e grazie al voto delle donne, in particolare quelle più anziane e politicamente indipendenti.

Le posizioni (confuse) sull’aborto di Donald Trump

Sull’aborto Donald Trump è invece confuso. È passato da pro-choice a pro-life; da «protettore delle donne», come si è definito pochi mesi fa, fino a non sapere neppure lui da che parte stare. Prima di entrare in politica, correva l’anno 1999, l’imprenditore si era definito un very pro-choice. «Odio il concetto di aborto e tutto ciò che rappresenta», aveva detto. Da allora ne è passato di tempo. Nel 2022 si considerava, infatti, il «presidente più pro-life» nella storia degli Stati Uniti. D’altronde si vanta tutt’oggi di aver ribaltato la Roe vs Wade grazie alla nomina dei tre giudici dell’Alta Corte. «Senza di me il movimento pro-life avrebbe continuato a perdere», scriveva all’epoca su Truth. Eppure, nell’ultimo periodo, Trump ha cercato di moderare i toni, e le opinioni, su un tema così delicato. Bacchettato, forse, dal suo partito, che rischia di perdere voti anche tra gli stessi repubblicani. Lo scorso autunno ha infatti precisato: «Mi siederei con entrambe le parti (pro-life e pro-choice) e negozierei qualcosa. Arriverai alla pace su questo tema per la prima volta in 52 anni», ha detto in un’intervista alla Nbc

Ora il candidato repubblicano che avrebbe abbandonato – almeno in campagna elettorale – le sue posizioni radicali (come il divieto a livello federale dell’interruzione volontaria di gravidanza), sostiene che siano gli Stati a doversene occupare. «La mia opinione sull’aborto è che ora che l’abbiamo dove tutti lo volevano da un punto di vista legale, gli Stati decideranno tramite voto o legislazione o forse entrambi, cosa fare», ha affermto recentemente in un video sui social. L’apice della sua confusione in materia di aborto è stato raggiunto durante il dibattito con Harris su Abc dove ha affermato che i democratici vogliono consentire l’aborto nel «nono mese» di gravidanza. 

Le parole sono importanti

Questo cambio repentino di posizioni sull’aborto si evince, in maniera evidente, in un articolo del New York Times di qualche giorno fa che ha contato quante volte Trump ha utilizzato la parola pro-life. Nel 2016 ben 36 volte, quest’anno – contro ogni previsione – 1 sola volta. Ma non solo: durante la sua campagna per la rielezione nel 2022, Trump ha spesso parlato del suo appoggio a un divieto federale sull’aborto dopo le 20 settimane. Il sostegno è arrivato in 50 occasioni quattro anni fa, post-Dobbs – anche in questo caso – soltanto una volta. Anzi, si è opposto al divieto in ben 9 interviste. Più in generale, il giornale americano ha contato 660 dichiarazioni sull’aborto da quando Trump si è candidato alla presidenza. L’obiettivo di Trump, secondo la sondaggista democratica Celinda Lake, è quello di «mantenere il sostegno degli elettori evangelici e allo stesso riconquistare quello dei moderati». Nel suo programma non vi è alcun riferimento al divieto federale sull’interruzione volontaria di gravidanza o al riconoscimento legale dei feti come bambini. Sebbene Trump non abbia più posizioni – almeno sulla carta – così conservatrici sull’aborto, antiabortisti e repubblicani della vecchia guardia possono però contare sul suo vicepresidente JD Vance, che in più occasioni ha invece espresso sostegno per il divieto nazionale di aborto e si era anche opposto all’interruzione di gravidanza per stupro e incesto. 

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