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Perché mezza America vota per Trump?

04 Novembre 2024 - 18:11 Tito Boeri
trump eco tito boeri
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La riflessione dell'economista e direttore della rivista «eco», in vista delle elezioni presidenziali americane

C’è un interrogativo che, non senza qualche apprensione, gira per la testa di molti di coloro che seguono la campagna per le presidenziali negli Stati Uniti da questa sponda dell’Atlantico: come sia possibile che più di 60 milioni di americani, circa la metà dei potenziali elettori, siano intenzionati a votare Donald Trump.

Lui, un presidente uscente che ha aizzato le folle contro il Parlamento cercando di rovesciare il voto popolare, un pluricondannato per frode e diffamazione, coinvolto in innumerevoli scandali. I suoi principali collaboratori della prima ora (da Raymond McMaster a John Bolton) e 91 tra famigliari, amici, leader mondiali, colleghi di partito e in affari, intervistati dal New York Times non hanno esitato a definirlo «unfit for duty», (inadatto alla carica), «attento solo ai suoi interessi individuali», «manipolabile», «instabile», «fan dei dittatori», «minaccia per la democrazia», «persona che non sa distinguere fra vero e falso», «persona che mette a rischio la sicurezza nazionale», «inaffidabile», «razzista». 

Del resto, anche chi non conosce Trump da vicino non può non avere notato che insulta non solo i suoi avversari ma anche i disabili nella sua stessa famiglia, che non ha mai rinnegato QAnon (gruppo clandestino di estrema destra) e le sue folli teorie della cospirazione. Fattosi esentare dalla guerra in Vietnam per futili motivi, si è rifiutato di onorare i soldati che hanno pagato con le loro vite lo sbarco in Normandia e ha osato tenere un comizio elettorale nel cimitero di Arlington offendendo i caduti dell’esercito. Ed è sempre lui, Trump, che usa sistematicamente toni razzisti nel rivolgersi a musulmani e messicani e che ha dato credito alle più assurde delle fake news, dagli immigrati che mangiano cani e gatti, ai server in Ucraina che organizzano l’hackeraggio del suo sito chiedendo a Volodymyr Zelensky di trovare il proprietario di questo presunto server! E potremmo continuare, se non fosse che lo fanno già profondi conoscitori delle campagne per le presidenziali negli Stati Uniti su questo numero di «eco».

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Non c’è solo Trump 

Trump non è certo l’unico politico al mondo che viola sistematicamente le regole di convivenza civile scritte e non scritte. Ce ne sono molti altri sparsi per il mondo. Anche in altre democrazie di lunga tradizione ci sono politici spregiudicati che ricorrono alla violenza verbale aizzando le folle contro le istituzioni che garantiscono un bilanciamento dei poteri. L’ultimo in ordine di apparizione è Herbert Kickl che in Austria inneggia al “sangue viennese” e tuona contro i “ladri marocchini”. Vengono comunemente chiamati populisti perché nella loro retorica contrappongono il popolo, considerato come un blocco monolitico, a una élite altrettanto monolitica e corrotta, da cui ovviamente si chiamano fuori anche se sono miliardari e le loro fortune non sono certo self-made. Trump, come abbiamo documentato sul primo numero di «eco», ha addirittura dilapidato il capitale accumulato da suo padre.

Si dirà che, al di là di quello che dicono i populisti, conta ciò che fanno quando assurgono al potere. Bene, in questo numero documentiamo, sulla base di analisi controfattuali rigorose (vale a dire cercando di stabilire cosa sarebbe avvenuto in quel momento storico se non fossero andati al potere), come i populisti al governo peggiorino il benessere dei cittadini, riducendo il reddito pro capite, e portino spesso i loro paesi sull’orlo del collasso, in un mix di alta inflazione, disoccupazione e incapacità di ripagare il debito pubblico. Hanno anche indebolito, se non sovvertito, le istituzioni democratiche, con derive autoritarie e in alcuni casi l’instaurazione di vere e proprie dittature. Molte le lezioni utili che si possono imparare dall’America Latina, un continente che vanta ben tre ondate di leader populisti.

Non è concepibile che i cittadini vogliano diventare più poveri e, con l’indebolimento delle istituzioni democratiche, rinunciare a scegliere liberamente chi li governa, soprattutto in un momento in cui c’è una forte domanda di protezione da parte dello Stato. Eppure, non c’è stato momento storico in cui leader politici e partiti populisti abbiano avuto tanto successo come oggi. In Europa sono al governo in Olanda, fanno parte di una coalizione in Italia e Svezia, lo condizionano dall’esterno in Francia e in Germania hanno maggioranze bulgare nei lander dell’Est. Com’è possibile? È un quesito particolarmente importante nell’anno in cui si va al voto in quasi 50 paesi chiamando alle urne 4 miliardi di abitanti del nostro pianeta.

La copertina del settimo numero di «eco», dedicata alle elezioni presidenziali americane

Tre possibili spiegazioni  

Sono tre le spiegazioni che forniamo in questo numero di «eco»:

  • La rabbia di chi si sente economicamente “abbandonato”  
  • La disinformazione orchestrata sui social media
  • Un deficit di rappresentanza di valori condivisi da gran parte dell’elettorato

Vediamole, brevemente, una per una.

Il risentimento economico

Il voto populista è spesso un voto “contro”, un voto di protesta e di rabbia, più che un voto “per”. Come documentano le indagini svolte dalla sociologa americana Arlie Russell Hochschild, i militanti del Tea Party e gli elettori di Trump sono concentrati tra le frange più disperate degli Stati Uniti. Si sentono economicamente discriminati, marginalizzati nell’accesso al mercato del lavoro come ai servizi pubblici. È un sentimento di frustrazione che monta contro chi rappresenta l’establishment, indipendentemente dal suo colore politico, travolgendo spesso anche gli stessi leader populisti, una volta giunti al potere. Il malcontento ha radici economiche nella deindustrializzazione e nelle disuguaglianze accentuate dalla globalizzazione ed è radicato fra le vittime delle grandi crisi del Nuovo Millennio. In teoria, queste frange della popolazione avrebbero tutto da guadagnare da politiche redistributive. Tuttavia, paradossalmente, non è la richiesta di politiche di questo tipo ciò che determina il loro voto. Trump, come molti altri populisti andati al potere, ha abbassato le tasse solo sui più ricchi, al contrario di Joe Biden e di precedenti presidenti democratici che hanno favorito i ceti medi e popolari, e i dazi che ha posto al centro del suo programma elettorale danneggiano soprattutto le fasce più deboli della popolazione le politiche protezionistiche, come spiegato in questo numero di «eco». Il fatto è che si tratta per lo più di risentimento piuttosto che di calcolo razionale. La stessa rabbia che porta ad attribuire a chi ci governa colpe che chiaramente non può avere, dal peggioramento della qualità dell’ambiente, alla pandemia, all’inflazione su scala planetaria. O forse ci si indigna proprio per la perdita di controllo di questi fenomeni, per l’impotenza dei governi di fronte alle sfide globali.

Il risentimento culturale 

focus group organizzati da Arlie Russell Hochshild testimoniano che il sentimento di marginalizzazione non riguarda soltanto le condizioni materiali di vita, ma anche i valori in cui ci si identifica, le proprie visioni su questioni come l’aborto, i matrimoni fra coppie gay, i ruoli di genere nella società come nella vita privata, le differenze etniche se non quelle razziali. Ci sono frange importanti dell’elettorato che non si sentono affatto rappresentate dall’universalismo dei diritti civili, a cui contrappongono la salvaguardia delle tradizioni locali e dei valori identitari antichi della loro comunità di appartenenza. Il populismo potrebbe, in altre parole, essere una sorta di rivalsa contro una classe politica che ha progressivamente perso il contatto con il conservatorismo e localismo di una fetta importante, se non maggioritaria, della popolazione. Su queste materie i partiti tradizionali generalmente non prendono posizione, lasciando ai propri eletti libertà di votare secondo coscienza. Si crea così un vacuum in cui si può agevolmente infilare la propaganda populista.

La disinformazione

I social media hanno avuto un ruolo importante nell’alimentare il malcontento. Piattaforme come Twitter ospitano soprattutto messaggi negativi e facilitano la retorica di chi è “contro” piuttosto di chi è “per”. Amplificano sia il risentimento economico che quello culturale e contribuiscono a ridimensionare il ruolo dei media tradizionali, che hanno più capacità di identificare le notizie false, nell’orientare l’opinione pubblica. Sulla carta, i social media offrono più ampia libertà di espressione dei media tradizionali. Ed è una libertà offerta a tutti, anche a chi non ha accesso ai media tradizionali e non ha i soldi per far sentire la propria voce. Ma spesso questa libertà di espressione si trasforma in licenza di disinformare, di diffondere notizie palesemente false, di spargere odio e terrore alterando l’esito del voto. È una disinformazione artatamente diffusa dai leader populisti che retwittano fake news e se ne fanno portavoce. Espone le nostre democrazie al rischio di ingerenze da parte di paesi governati da regimi autoritari.

It’s migration, stupid

Ciascuna di queste spiegazioni contiene una parte di verità e non si tratta di interpretazioni tra di loro antitetiche. Il risentimento economico e quello culturale si rafforzano a vicenda e i social media ne amplificano la portata. Dunque tutto si tiene. Ma manca a queste spiegazioni un ingrediente fondamentale: la salienza, ciò che pone al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica la propaganda dei populisti. I sentimenti da questa catturati rimarrebbero probabilmente latenti in frange dell’elettorato se non ci fosse un fenomeno che mobilita le coscienze. 

Non è difficile identificare di cosa si tratta. Basta guardare ai contenuti dei tweet dei leader populisti negli Stati Uniti, in Europa come in Australia. Il tema di gran lunga preponderante nei loro messaggi è l’immigrazione. È un facile capro espiatorio contro cui dirottare paure e rabbia. L’immigrazione come minaccia alla sovranità e integrità nazionale, l’immigrazione come importazione di criminali, l’immigrazione come drenaggio di risorse pubbliche, l’immigrazione come violazione delle tradizioni locali. I partiti tradizionali preferiscono non parlarne perché la considerano un terreno minato. Obiettivamente lo è: come contrastare l’efficacia comunicativa dei muri eretti ai confini, dei blocchi navali, dei rimpatri? Ma non parlarne concede campo apertissimo alla propaganda populista e ne nasconde l’intrinseca debolezza e contraddittorietà. Perché il declino demografico mette sotto gli occhi di tutti il ruolo irrinunciabile dell’immigrazione per paesi dove si fanno sempre meno figli. In questo contesto, potrebbe rivelarsi molto più rassicurante il presidio di frontiere anche in parte esternalizzate, garantendo il rispetto dei diritti umani, la selezione di chi può entrare e l’integrazione e assimilazione per chi è già da noi, perché è proprio questo il modo migliore di assicurare l’ordine pubblico e salvaguardare le identità nazionali. 

Come lo stratega elettorale di Clinton, John Carville, che sosteneva che era l’economia a determinare l’esito del voto («It is the economy, stupid») noi pensiamo che sia l’immigrazione il vero collante del voto populista. E, al contrario di molti leader di partiti tradizionali, non rinunceremo a trattare di immigrazione su queste colonne.

Questo editoriale di Tito Boeri, economista e direttore di «eco», è stato pubblicato sul settimo numero della rivista dedicato alle elezioni negli Stati Uniti

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