Eleonora Daniele, la salute mentale e il fratello autistico: «Continue crisi e urli, era impossibile imporgli il silenzio»
Eleonora Daniele è la conduttrice di Storie Italiane su Rai1. Ha scritto un libro sulla salute mentale dal titolo Ma siamo tutti matti? Il racconto porta undici casi di drammi legati ai problemi della psiche. Una realtà che la famiglia di Daniele conosce in prima persona. Perché suo fratello era autistico: «Sono la più piccola di quattro figli, e Luigi aveva cinque anni più di me; (pausa) avevo bisogno di accendere un riflettore sul problema dell’assistenza e sulla successiva impotenza delle famiglie nell’occuparsi di vicende così complesse». Secondo la conduttrice dopo la legge Basaglia del 1978 «tutto il sistema di cura della malattia mentale ha subito un arresto importante; oggi siamo nell’emergenza, figlia di anni e anni di deficit e tutto si è aggravato».
Il fratello autistico
Tra i casi si parla di quello di Alberto Scagni, che ha ucciso la sorella: «La mamma la sento di frequente; spesso non si comprende il dramma delle famiglie, di chi si ritrova in casa un malato mentale ed è costretto a denunciare il proprio figlio; (pausa, cambia tono) alcune denunce dovrebbero partire in automatico, d’ufficio, e non aspettare la madre o il padre».
Ma la vicenda del fratello è centrale: «Noi, fino all’ultimo giorno della sua vita, ci siamo resi conto che sono le persone a marcare la differenza, non le leggi ragionali o nazionali. Mio fratello ha vissuto vent’anni a Treviso, fino a quando, per la legge, lo hanno avvicinarlo al nucleo sanitario territoriale». E aggiunge: «È una vicenda che non supererò mai e ho pensato di non parlarne più, poi ho capito che è sbagliato stare zitti, è sbagliato cedere al sistema che ti porta mentalmente a chiudere la porta di casa…».
Le crisi continue
Il fratello legava di più con lei «perché ero la più piccola di casa, ma ricordo benissimo il periodo della sua adolescenza, del suo sviluppo intorno ai quindici o sedici anni: continue crisi e per fermarlo a volte eravamo costretti a bloccarlo, sennò solo mio padre aveva la forza fisica necessaria; poi ricordo gli ospedali, cosa vedevo, soggetti gravi, alcuni con il casco in testa per evitare atti di autolesionismo. Quando lo portavamo in ospedale, alcuni ci rimproveravano perché urlava, senza capire che era impossibile imporgli il silenzio». Ora in famiglia non ne parlano più: «Mia madre l’altro giorno gli ha portato i fiori: “Con i morti si fa”. E ho pensato: giusto, ma alla famiglia va assicurata la possibilità di vivere».