La vittoria di Trump è anche la fine politica dello star system. Da Taylor Swift a Beyonce, quanti endorsement inutili per Harris
Se la partita per la presidenza USA tra Donald Trump e Kamala Harris si fosse giocata esclusivamente sugli endorsement da parte delle celebrity, per decretare la vittoria dei democratici non sarebbero serviti più di qualche secondo e nemmeno una calcolatrice. Kamala Harris infatti ha usufruito dell’invito al voto democratico dell’elite dello showbiz a stelle e strisce: da Lady Gaga a Ricky Martin, da Bruce Springsteen ad Eminem. E ancora: Leonardo Di Caprio, Beyoncè, Billie Eilish, George Clooney, Robert De Niro, Spike Lee e Barbra Streisand. Perfino LeBron James, uno dei più forti e popolari giocatori della storia dell’NBA, e l’ex governatore (repubblicano) della California Arnold Schwarzenegger. Anche Mick Jagger, che è cittadino inglese e nemmeno ha potuto votare in prima persona per lei, le ha garantito sostegno. Qualsiasi tipo di artista, di ogni età, di ogni etnia. Si sono schierati tutti letteralmente in massa. Dall’altra parte, il tycoon ha risposto con Buzz Aldrin, 94 anni, secondo uomo a mettere piede sulla luna. Era riuscito a strappare l’appoggio di due star assolute del reggaeton come Anuel AA e Nicky Jam, salvo poi perderlo quando ha definito Puerto Rico «un’isola spazzatura». E poi ancora, Kanye West, rapper popolare ma notoriamente eccentrico, clinicamente bipolare. E poi due ultracattolici come Jim Caviezel e Mel Gibson, due wrestler attempati come Hulk Hogan e The Undertaker, la star del country Kid Rock e il protagonista di Shazam! Zachary Levi. Stop. Personaggi noti ma, nella percezione comune, perfino vagamente negativi. Eppure per i democratici la sconfitta è stata cocente. E se è vero che la campagna elettorale di Harris è stato, come ha detto la Cnn, «il più grande momento politico di Hollywood dai tempi di Obama», visto il coinvolgimento diretto di moltissime star, dopo la vittoria del tycoon viene da chiedersi se questi endorsement sono serviti davvero a qualcosa. A guardare i dati oggi, la risposta non può che essere negativa. Perché Donald Trump, a dispetto di una campagna contro da parte della quasi totalità del mondo dello spettacolo a stelle e strisce, non solo ha vinto ma – rispetto al 2020 – ha incrementato la propria popolarità tra i giovani della fascia 18-29 di ben 6 punti, che si alzano addirittura a 14 tra i giovani di sesso maschile. Intuitivamente, il target di riferimento se pensiamo al mondo dei social.
Il caso Taylor Swift
Più in generale queste elezioni (questi dati in particolare) certificano che esiste evidentemente anche un rapporto disfunzionale tra la celebrità e ciò che poi avviene nella vita di tutti i giorni, quella senza palchi e luci, dall’altra parte dello schermo o aldilà delle transenne di un concerto. In questo senso il caso Taylor Swift è piuttosto esemplificativo. Perché parliamo di quella che, secondo il Times, è il personaggio più influente del mondo nel 2024, protagonista del tour mondiale con i maggiori incassi della storia della musica (l’Eras Tour), l’artista solista rimasta per più settimane nella storia in vetta alla classifica americana Billboard (la più credibile del circuito specializzato), sopra Elvis e seconda solo ai Beatles, e che lo scorso 11 settembre ha accontentato i democratici americani con il suo endorsement alla Harris. Dati i presupposti, nettamente il più atteso di questa tornata elettorale. Il post sfiora gli 11 milioni e mezzo di like, facendo sobbalzare gli analisti americani che non possono, a ben ragione, non considerare un simile impatto mediatico. Le percentuali che circolano sono altissime, la nuova regina del pop mondiale, forte dei suoi 283 milioni di follower solo su Instagram, ha portato 338mila americani ad iscriversi alla piattaforma Vote.gov. Trump l’ha dovuta affrontare di petto, con la spregiudicatezza dialettica che lo contraddistingue: «La odio». Tutto ciò, stamane è certificato, non è servito a niente.