Franco Baresi, il selfie con Pelé, la zona e l’infezione al sangue: «Non riuscivo più a camminare»
Il calciatore Franco Baresi è considerato uno dei più grandi difensori di tutti i tempi. E ha scritto un libro, Ancora in gioco, sul senso della vita. Nel quale racconta aneddoti come quello dopo la sconfitta ai rigori con il Brasile a Usa ’94 e il ricordo di Ayrton Senna: «Forse hanno anche meritato di vincere e poi avevano questa stella da lassù che li ha accompagnati. Credo che nello sport si debba avere quella forza e quella cultura per riconoscere la grandezza altrui», dice oggi in un’intervista al Corriere della Sera. Sul rigore sbagliato «io mi sono sempre ritenuto fortunato a giocare quella finale dopo la corsa contro il tempo per recuperare dall’infortunio. E farlo in quel modo, con una delle mie prestazioni migliori, resta un ricordo positivo», ricorda nel colloquio con Paolo Tomaselli.
Il selfie con Pelé
Baresi ricorda di quando Pelé gli ha chiesto un selfie: «Ero meravigliato e emozionato. Lui era un mito». E dello svenimento di Ribery mentre insieme visitano un reparto di oncologia pediatrica ad Algeri: «Il calcio può alleviare le sofferenze. Noi abbiamo questa forza. In Libano siamo stati tra centinaia di profughi e abbiamo visto i bambini che con un pallone scordavano tutto in un attimo. Sono esperienze che mi hanno reso più attento all’aspetto umano: bisogna saper ascoltare, non essere superficiali, chiedere agli altri se sono felici». Sugli abusi di farmaci dice: «Penso di non aver mai preso cose nocive. Secondo me il destino va oltre». Poi racconta del virus che nel 1981 lo tenne fuori dal calcio per 4 mesi: «Un’infezione al sangue: una volta individuato lo stafilococco, trovarono l’antibiotico giusto. Ma la ricerca non fu breve. Da giovane pensi di guarire il giorno dopo, ma passare dal campo alla sedia a rotelle fu un momento delicato: non riuscivo quasi a camminare per i dolori e mi facevo delle domande».
I campioni senza fame
«Oggi è un altro mondo, nel quale i giovani non si focalizzano solo su una passione: per noi dopo la famiglia e la scuola c’era solo il pallone», dice oggi per spiegare i campioni senza fame nello sport. Poi spiega la sua svolta storica: «Nel 1984 con Liedholm e il passaggio alla difesa a zona cominciai a capire la mia ascesa: quel gioco me lo sentivo addosso, la mia mente era portata al futuro, a un calcio più offensivo e organizzato». Silvio Berlusconi lo sorprendeva «quasi sempre. Abbiamo avuto un rapporto molto bello: era attento all’atleta, ma anche alla persona. E ritirare la maglia numero 6 fu qualcosa di mai visto prima. La politica? Qualche volta mi chiedeva se mi sarebbe piaciuto candidarmi a Milano. Poi ha capito che il mio carattere non era adatto».
Il regista Herzog
Baresi ricorda l’incontro con il regista Werner Herzog: «Quando lo sentii parlare di me in tv da Fazio mi meravigliò molto, anche perché non era un appassionato di calcio: eppure entrò nell’aspetto umano e tecnico, nella intuizione dello spazio e del gioco, come nessun altro. Incontrandolo, ho capito meglio il potere dell’immaginazione, come quello di Fitzcarraldo che issa la nave sopra la montagna. Bisogna puntare a obiettivi che magari non pensi nemmeno che esistano». E adesso dice che non sa se rimarrebbe per tutta la carriera nello stesso club: «Il calcio è cambiato, io non ho nemmeno mai avuto un procuratore. Restare al Milan era una cosa naturale». Avrebbe potuto guadagnare molto di più: «Sì, ma ci si pensa sempre dopo. Certo, oggi le cifre che girano sono molto diverse».