La Corte Costituzionale fa a pezzi la legge sull’autonomia di Calderoli. «Non si possono affidare intere materie alle regioni»
In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio Comunicazione e stampa fa sapere che la Corte costituzionale ha ritenuto non fondata la questione di costituzionalità dell’intera legge sull’autonomia differenziata delle regioni ordinarie (n. 86 del 2024), considerando invece «illegittime specifiche disposizioni dello stesso testo legislativo». Un giudizio che demolisce il progetto del Ministro per gli affari regionali Roberto Calderoli, salvando solo alcuni aspetti ma sottolineando il fatto che non si possono affidare alle regioni intere materie ma solo leggi e funzioni. Insomma, quello che di fatto è il cuore della legge Calderoli.
«L’autonomia deve tutelare i diritti della Costituzione e quindi anche il principio della sussidiarietà»
Secondo il Collegio, l’art. 116, terzo comma, della Costituzione (che regola l’attribuzione alle regioni ordinarie di forme e condizioni particolari di autonomia) «deve essere interpretato nel contesto della forma di Stato italiana». «Essa riconosce, insieme al ruolo fondamentale delle regioni e alla possibilità che esse ottengano forme particolari di autonomia, i principi dell’unità della Repubblica, della solidarietà tra le regioni, dell’eguaglianza e della garanzia dei diritti dei cittadini, dell’equilibrio di bilancio», spiega una nota della Consulta. Questo perché, per i giudici, non ci deve esser un «riparto di potere tra i diversi segmenti del sistema politico», ma una «funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione. A tal fine, è il principio costituzionale di sussidiarietà che regola la distribuzione delle funzioni tra Stato e regioni». «In questo quadro, l’autonomia differenziata deve essere funzionale a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici, ad assicurare una maggiore responsabilità politica e a meglio rispondere alle attese e ai bisogni dei cittadini», spiegano i giudici.
Cosa non va secondo la Corte Costituzionale: i Lep non li può definire il governo, non si possono delegare materie intere
La Corte, nell’esaminare i ricorsi delle Regioni Puglia, Toscana, Sardegna e Campania e le difese del governo e delle Regioni Lombardia, Piemonte e Veneto, indica come incostituzionali:
- la possibilità che l’intesa tra lo Stato e la regione e la successiva legge di differenziazione trasferiscano materie o ambiti di materie, laddove la Corte ritiene che la devoluzione debba riguardare specifiche funzioni legislative e amministrative e debba essere giustificata, in relazione alla singola regione, alla luce del richiamato principio di sussidiarietà;
- il conferimento di una delega legislativa per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (LEP) priva di idonei criteri direttivi, con la conseguenza che la decisione sostanziale viene rimessa nelle mani del Governo, limitando il ruolo costituzionale del Parlamento;
- la previsione che sia un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (dPCm) a determinare l’aggiornamento dei LEP;
- il ricorso alla procedura prevista dalla legge n. 197 del 2022 (legge di bilancio per il 2023) per la determinazione dei LEP con dPCm, sino all’entrata in vigore dei decreti legislativi previsti dalla stessa legge per definire i LEP;
- la possibilità di modificare, con decreto interministeriale, le aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali, prevista per finanziare le funzioni trasferite, in caso di scostamento tra il fabbisogno di spesa e l’andamento dello stesso gettito; in base a tale previsione, potrebbero essere premiate proprio le regioni inefficienti, che – dopo aver ottenuto dallo Stato le risorse finalizzate all’esercizio delle funzioni trasferite – non sono in grado di assicurare con quelle risorse il compiuto adempimento delle stesse funzioni;
- la facoltatività, piuttosto che la doverosità, per le regioni destinatarie della devoluzione, del concorso agli obiettivi di finanza pubblica, con conseguente indebolimento dei vincoli di solidarietà e unità della Repubblica;
- l’estensione della legge n. 86 del 2024, e dunque dell’art. 116, terzo comma, Cost. alle regioni a statuto speciale, che invece, per ottenere maggiori forme di autonomia, possono ricorrere alle procedure previste dai loro statuti speciali.
Cosa salva la Corte Costituzionale
I giudici hanno accolto «l’iniziativa legislativa relativa alla legge di differenziazione» perché non «va intesa come riservata unicamente al Governo». «La legge di differenziazione non è di mera approvazione dell’intesa (“prendere o lasciare”) – spiegano – ma implica il potere di emendamento delle Camere; in tal caso l’intesa potrà essere eventualmente rinegoziata». Non solo, approvano la «limitazione della necessità di predeterminare i Livelli essenziali delle prestazione ad alcune materie (distinzione tra “materie LEP” e “materie-no LEP”)»; il gettito dei tributi erariali che va definito non sulla spesa storica ma su «costi e fabbisogni standard e criteri di efficienza, liberando risorse da mantenere in capo allo Stato per la copertura delle spese che, nonostante la devoluzione, restano comunque a carico dello stesso». E infine si salva anche la «clausola di invarianza finanziaria», sensibile all’andamento della finanza pubblica. L’invito dei giudici della Corte Costuzionale è chiaro: «Spetta al Parlamento – scrivono – nell’esercizio della sua discrezionalità, colmare i vuoti derivanti dall’accoglimento di alcune delle questioni sollevate dalle ricorrenti, nel rispetto dei principi costituzionali, in modo da assicurare la piena funzionalità della legge». Si riservano infine disponibili a vagliare la costituzionalità delle singole leggi di differenziazione.