L’Europa si prepara al ciclone Trump. Benifei (Pd): «Se Musk non rispetta le regole Ue, applicheremo sanzioni» – L’intervista
Da Bruxelles – Nella scorsa legislatura europea, Brando Benifei si è fatto conoscere come relatore dell’AI Act, la prima legge al mondo sull’intelligenza artificiale. Ora l’eurodeputato del Pd, che a 38 anni è già al suo terzo mandato consecutivo, si ritrova a guidare la delegazione del Parlamento europeo per i rapporti con gli Stati Uniti. Un ruolo particolarmente delicato, soprattutto ora che Donald Trump si appresta a tornare alla Casa Bianca. Raggiungiamo Benifei per telefono mentre si trova in Texas, poche ore prima delle ultime audizioni dei canditati commissari europei.
Ha seguito le elezioni americane dal Texas?
«No, sono arrivato qui subito dopo le elezioni. Ci siamo ritrovati per una riunione con i rappresentanti dei Democratici e dei Repubblicani al Congresso. Ci avevano invitato già da tempo e volevano riunirsi appena dopo il voto».
Di cosa avete parlato?
«Questo incontro serviva più che altro a conoscerci, a febbraio ci sarà un’audizione più strutturata a Washington. Ma nel frattempo abbiamo parlato di cybersecurity, agricoltura, commercio e non solo».
Con la vittoria di Trump l’Europa rischia davvero di ritrovarsi da sola nel sostegno all’Ucraina?
«Sulla Nato e l’Ucraina i rappresentanti del congresso americano sono stati più prudenti. Anche i Repubblicani ci hanno garantito che la maggioranza del loro partito vorrebbe seguire una linea di continuità sui rapporti con l’Europa. Insomma, si sono distanziati in maniera discreta dalla linea di Trump, quella per cui o si investe più del 2% del Pil in Difesa oppure gli Usa si sganciano».
Sta dicendo che la politica estera di Trump potrebbe essere più moderata del previsto?
«Non sappiamo cosa farà esattamente e se rispetterà quanto detto in campagna elettorale. Dentro l’entourage di Trump c’è sicuramente l’intento di seguire una linea più dura. Ma ciò che è emerso dal nostro viaggio in Texas è che ci sarà una resistenza del Congresso verso la linea di disimpegno e rottura con l’Ue. Anche sui dazi, d’altronde, è emersa grande incertezza».
C’è il rischio di una guerra commerciale tra Stati Uniti e Unione europea?
«Il rischio c’è. L’impressione, discutendo anche con alcuni esperti, è che Trump farà molto sul serio sulla Cina. A quel punto, gli Usa potrebbero chiedere all’Europa di avere un atteggiamento altrettanto duro con la Cina quanto il loro. In altre parole, ci chiederebbero di allineare la nostra politica commerciale alla loro, ma questo andrebbe contro la linea di molti governi europei».
Esiste un tema su cui ci sono più speranze di collaborazione?
«Una maggiore cooperazione sulle questioni energetiche potrebbe ridurre lo scontro commerciale. In una telefonata con Trump, la stessa Ursula von der Leyen ha parlato della possibilità di rimpiazzare il gas naturale liquefatto, che attualmente acquistiamo anche dalla Russia, con gas americano».
Immaginiamo che a gennaio Trump annunci davvero dazi sulle importazioni dall’Europa. Quale sarebbe la reazione di Bruxelles?
«È uno scenario che noi speriamo di scongiurare tramite un intenso lavoro diplomatico. Ma se davvero succedesse, sarebbe inevitabile reagire con alcune contromisure. Il nostro approccio però resta quello di evitare di trovarci in questa situazione».
Come si pone l’Europa di fronte al protagonista di Elon Musk? Il patron di Tesla, tra l’altro, ha alcuni contenziosi aperti con l’Ue…
«Credo che l’Unione europea debba trattare allo stesso modo i vari operatori economici internazionali, comprese le aziende di Musk. Non ci devono essere pregiudizi, anche a fronte di uscite sopra le righe come quella sui giudici italiani, che suonano un po’ come un’ingerenza. Le istituzioni devono avere un rapporto corretto con realtà come Tesla e SpaceX, senza mescolare i piani. Se da parte di Musk non c’è volontà di cooperare con le regole europee, sarà necessario mettere in campo le relative sanzioni. Ma l’importante è che ci sia chiarezza, così da evitare strumentalizzazioni e polemiche. Detto questo, non si può immaginare che il ruolo di consigliere del presidente Trump possa dare a Musk speciali vantaggi per lui o le sue aziende in Europa».
La vittoria di Trump può avvantaggiare leader e formazioni di estrema destra anche in Europa?
«Sicuramente ci sarà il tentativo da parte di alcune forze politiche di cavalcare la vittoria di Trump. È un approccio sensato dal punto di vista della propaganda politica, ma che poi non trova riscontro nella realtà. La proposta politica di Trump ha una specificità americana, quindi non vedo come la sua vittoria si potrebbe tradurre in un vantaggio elettorale per queste forze politiche. Sicuramente l’elezione di Trump dà fiato e sensazione di legittimità a formazioni estremiste legate a un’impostazione razzista e suprematista, che ora si sentono più libere».
C’è il rischio che Viktor Orbán diventi il nuovo perno dei rapporti tra Ue e Usa?
«Il tentativo di Orbán è in atto già da tempo. Con forme diverse e in modo più morbido, anche Meloni sta facendo lo stesso. I vantaggi che si possono realizzare da un rapporto bilaterale tra singoli paesi e Stati Uniti, anche a scapito delle politiche comunitarie, sono solo di breve termine. Ritengo che un’azione politica comune europea sia nell’interesse di tutti e per ora questo schema sta reggendo. Più che i singoli governi, devono essere le istituzioni comunitarie a imporsi come interlocutori. Anche perché sulle questioni più delicate, come la guerra in Ucraina o i dazi, l’Ue svolge un’azione importante».
Si parla spesso della necessità per l’Europa di rendersi più indipendente dagli Stati Uniti. Sarà la volta buona?
«Avere un’Unione europea più autonoma è nell’interesse di una relazione transatlantica efficace e sana. Solo così le basi di questa relazione possono essere sostenibili anche per gli interessi di noi europei. Ci sono alcuni fronti, evidenziati bene dal rapporto di Mario Draghi, su cui l’Ue ha bisogno di maggiore sovranità».
Ce lo dica: l’Europa si è davvero preparata a un ritorno di Trump alla Casa Bianca?
«Rispetto a otto anni fa, oggi siamo più preparati e pronti a rispondere. Un lavoro di preparazione c’è stato, seppur nei limiti di quello che l’Unione europea può fare, con le sue lentezze e le sue difficoltà».
Con una vittoria di Kamala Harris sarebbe stato tutto più facile?
«Con Harris ci sarebbero stati minori scossoni e più continuità rispetto a quanto avvenuto negli ultimi anni. Ma anche con l’amministrazione Biden non tutto funzionava sempre alla perfezione. Avevamo, per esempio, contenziosi commerciali su acciaio, alluminio e aerei civili. E anche sul conflitto in Medio Oriente non c’è sempre stato un totale allineamento delle posizioni. Detto questo, con i Democratici il confronto stava sempre dentro binari comprensibili e c’era più rispetto verso le istituzioni internazionali. Il problema di Trump, invece, è un altro.
E quale sarebbe?
«L’imprevedibilità. È questo il tema di fondo. Abbiamo a che fare, come mi è stato ripetuto da alcuni esponenti del congresso americano, con un negoziatore e imprenditore immobiliare di New York. Con Trump c’è sicuramente un grande senso di incertezza, perché si tratta di un soggetto abituato a negoziare pensando al risultato immediato e non al lungo termine».
In copertina: Ursula von der Leyen e Donald Trump durante il forum di Davos, in Svizzera, 21 gennaio 2020 (EPA/Stefan Wemuth)