Robbie Williams, la droga e la disforia da boyband: «C’è uno schema: si formano, esplodono, si ammalano»
L’uscita delle prime due puntate di Boybands Forever, documentario della Bbc che racconta l’altra faccia della medaglia dello strepitoso successo delle boyband negli anni Novanta, comincia a scatenare i primi dibattiti. A commentare per primo Robbie Williams, l’ex Take That attraverso il suo profilo Instagram risponde alle dichiarazioni di Nigel Martin Smith, il manager della band, uno degli uomini di punta di quel circuito musicale, che nel documentario sostiene che Robbie Williams era «furbo e piuttosto sveglio» nell’attribuire la colpa del suo consumo di droga al fatto di far parte «di questa band in cui non poteva avere fidanzate o uscire». La popstar, il cui biopic verrà distribuito nelle sale cinematografiche il giorno di Natale, scrive: «Ero terrorizzato ed eccitato allo stesso tempo all’idea di condividere di nuovo uno schermo con te. Eccitato di vedere a che punto di questo viaggio eravamo arrivati e terrorizzato di essere ancora in uno stato di rabbia, dolore o paura». Un messaggio distensivo in realtà, perché Robbie Williams discolpa totalmente il suo ex manager: «Permettimi di rispondere alla tua affermazione. Il mio consumo di droga non è mai stata colpa tua. La mia risposta al mondo distorto che mi circonda è solo mia. Il modo in cui ho scelto di automedicarmi è ed è stato qualcosa che monitorerò e con cui avrò a che fare per tutta la vita. Fa parte della mia natura e avrei avuto lo stesso disturbo se fossi stato un tassista. Sono arrivato lì più velocemente grazie alle finanze e al fatto di poter disporre di più soldi, mentre cercavo invano di contrastare la turbolenza della centrifuga mediatica della celebrità pop».
Troppo in alto, troppo in fretta. La condanna delle giovani popstar
«Se seguite attentamente la storia – prosegue Robbie Williams nel post – non potete fare a meno di notare che emerge uno schema. I ragazzi si uniscono a una boyband. La band diventa enorme. I ragazzi si ammalano. Alcuni sono fortunati attraverso una serie di auto-esami e aiutano a superare la loro esperienza. Altri non riescono mai a districare il pasticcio dei rottami del passato. Non sto violando l’anonimato di nessuno condividendo gli effetti collaterali della disforia da boyband che riguardano solo noi ragazzi». Utilizza proprio questo termine: «disforia», ovvero, da vocabolario Treccani: «In psichiatria, alterazione dell’umore affine agli stati di depressione e di irritazione, spesso associata ad ansia e a comportamento impulsivo». Una patologia che, come ormai noto, ha fatto diverse vittime nel mondo dello showbiz. Dal livello globale – come Shawn Mendes, che alla sua salute mentale ha dedicato tutto il nuovo album intitolato, non a caso, Shawn – a quello nostrano, con il giovane Sangiovanni, anche lui in difficoltà rispetto la vita da giovane artista di successo. Una situazione che non è stata troppo esacerbata dalla nuova comunicazione social, in realtà esisteva anche negli anni Novanta, quando anzi forse l’assenza di un contatto diretto con le star della musica provocava un isterismo ancora più potente. Robbie Williams, che fu un Take That, ricordiamolo, tra i 16 e i 21 anni, reagì con la droga, ma in realtà anche tutti gli altri membri della band ebbero seri problemi psicologici. Come scrive Rockol: «Ricordiamo come Howard Donald abbia avuto tendenze suicide quando i Take That si sono sciolti per la prima volta, di come Mark Owen abbia avuto a che fare con le dipendenze da stupefacenti, di come Gary Barlow abbia sofferto di bulimia, e infine Jason Orange, che “qualunque effetto i Take That abbiano avuto su di lui è così doloroso che non può nemmeno più farne parte”».