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Processo Regeni, spunta un testimone: «Ho visto Giulio in carcere, lo torturavano con scosse elettriche»

19 Novembre 2024 - 14:48 Ugo Milano
giulio regeni processo testimone tortura manette
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Al processo per la morte del ricercatore friuliano, proiettata l'intervista di «Al Jazeera» a un detenuto degli 007 egiziani: «Gli chiedevano: "Dove hai imparato a resistere alla tortura?"»

«Era ammanettato con le mani dietro la schiena e gli occhi bendati. L’ho rivisto che usciva dall’interrogatorio, sfinito dalla tortura. Era tra due carcerieri che lo portavano a spalla verso le celle». Le parole – estratto di un video documentario di Al Jazeera – sono di un uomo palestinese, detenuto dai servizi segreti egiziani nella stessa struttura in cui sarebbe stato tenuto anche Giulio Regeni, il ricercatore friuliano rapito il 25 gennaio 2016 dagli 007 al Cairo e trovato morto con segni di tortura il 3 febbraio dello stesso anno. L’intervista al detenuto è stata proiettata oggi, martedì 19 novembre, in aula a Roma durante il processo ai 4 agenti accusati di sequestro pluriaggravato, lesioni gravissime e omicidio. «Non era nudo, indossava abiti, dei pantaloni scuri e una maglietta bianca», ha continuato l’uomo palestinese. «Ho visto un altro detenuto con segni di tortura sulla schiena. I carcerieri insistevano molto con la domanda: “Giulio, dove hai imparato a superare le tecniche per affrontare l’interrogatorio?”. Erano nervosi, lo torturavano usando la scossa elettrica». Il testimone ha poi aggiunto in aula: «Non c’era nessun contatto con il mondo esterno: la sensazione era quella di stare in un sepolcro. Sono stato sequestrato, detenuto e poi liberato senza un perché».

La «ragnatela» intorno a Regeni e la visita degli agenti nella sua casa

Al vaglio durante il processo – a carico del generale Tariq Sabir, dei colonnelli Athar Kamal e Uhsam Helmi e del maggiore Magdi Ibrahim Abdel Sharif – c’è quella che i genitori del ricercatore hanno definito «una ragnatela tessuta intorno a Giulio anche dalle persone che gli stavano più vicine». Secondo le testimonianze di una coinquilina di Regeni al Cairo, sentita in forma protetta per ragioni di sicurezza, gli 007 avevano già preso contatto a metà dicembre 2015. Si erano infatti presentati a casa del ricercatore (in quel momento assente) e avevano chiesto al terzo coinquilino, Mohamed El Sayed, una copia del suo passaporto. La motivazione fornita era semplice: si trattava di un controllo di routine che i servizi segreti egiziani facevano per tutti gli stranieri presenti nella capitale. El Sayed, a quel punto, si sarebbe «scambiato il numero di telefono con l’agente, senza raccontare della visita a Giulio. Gli disse solo che gli stranieri devono dare documenti e presentarsi alla stazione di polizia. Forse aveva un sospetto che lui aveva fatto qualcosa che non doveva fare». La stessa teste, denominata”Beta” per mantenerne l’anonimato, ha raccontato di essere stata sentita tre volte dalle autorità egiziane.

La chiamata tra gli 007 e il coinquilino

Negli scorsi giorni è stata depositata un’informativa contenente le analisi dei tabulati telefonici da parte degli investigatori del Ros. Secondo quanto traspare, gli 007 si sarebbero messi in contatto con El Sayed il 26 gennaio, il giorno dopo la scomparsa di Giulio Regeni. La teste “Beta” ha raccontato cosa è accaduto. quel giorno:«Quel 25 gennaio, Giulio uscì di casa intorno alle 19.30. Mi disse doveva andare ad una festa di compleanno dall’altra parte della città. Non è più rientrato a casa. Con lui avevo un rapporto di amicizia, un buon rapporto. Andavamo a fare jogging e si mangiava insieme». Secondo l’accusa, il ricercatore fu prelevato mentre attendeva a una stazione della metropolitana.

Le parole della sorella

In aula come testimone nel processo presente anche la sorella del ricercatore, Irene Regeni. «Ricordo una telefonata di mia madre», ha detto visibilmente commossa. «Mi disse: “Hanno fatto tanto male a Giulio”. La parola tortura però l’ho sentita per la prima volta al telegiornale». E poi ha fornito un ritratto del fratello: «Era un ragazzo normalissimo, gli piaceva divertirsi. Era un esempio per me, il fratellone che dava consigli». Le passioni però erano diverse: «Lui era un umanista e io una scienziata. Eravamo sempre in contatto sulle cose importanti: ci sentivamo tramite chat e tramite mail. È stato sempre appassionato di storia, studiava l’arabo. Dopo il corso triennale andò per la prima volta in Egitto. Era aperto a conoscere culture diverse, in particolare quella egiziana: era entusiasta di andare lì, era contento per la ricerca sul campo».

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