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Buoni pasto, tetto alle commissioni al 5% anche per il privato. L’aumento dei costi per le aziende e il rischio di meno servizi per i dipendenti

21 Novembre 2024 - 12:50 Ugo Milano
buono pasto tetto rischio consumatori
buono pasto tetto rischio consumatori
L'emendamento al Dl Concorrenza equipara i privati al pubblico e sarà valido dal prossimo settembre. Soddisfatte le associazioni degli esercenti, le preoccupazioni dei consumatori (e di chi produce i buoni)

Tetto massimo del 5% anche alle commissioni per i buoni pasto utilizzati dai dipendenti delle aziende private. Ieri sera, mercoledì 20 novembre, il via libera definitivo all’emendamento inserito nel Dl Concorrenza a firma del deputato di Fratelli d’Italia Silvio Giovine. L’obiettivo raggiunto dal nuovo provvedimento è chiaro e più volte ricordato dalle sigle dei pubblici esercizi, da Federdistribuzione a Ancc-Coop fino a Confcommercio. Vale a dire la completa equiparazione delle commissioni tra privato e pubblico, dove già nel 2022 era stato fissato il massimo al 5%. Il privato era ancora, invece, un mercato “libero”, e per questo con percentuali di guadagno per le società emettitrici che a volte sfioravano il 20% del ticket stesso. Ma l’attenzione posta sull’uniformazione dei due emisferi di mercato sembra aver fatto passare in secondo piano l’impatto che una tale limitazione potrebbe avere sui dipendenti e sulle piccole imprese.

Come funzionano i buoni pasto

Il buono pasto – lo conosciamo – è il ticket concesso ai lavoratori che ne hanno diritto e che consente loro di sfruttarlo per l’acquisto di alimentari: dal supermercato al bar, fino al ristorante. All’interno di questo sistema dal valore di 4 miliardi annui si interfacciano quattro entità. I datori di lavoro con una deduzione fiscale del 100% possono offrire un servizio parallelo alla mensa ai i dipendenti, che usufruiscono del ticket. Ci sono poi le società di emissione dei buoni, che trattano con i datori e stipulano convenzioni con gli esercizi commerciali affinché accettino i buoni come metodo di pagamento. E proprio su questo ultimo snodo si potrebbe insinuare un problema.

I 4 giocatori al tavolo delle commissioni

Quando una società emettitrice stipula una convenzione con un esercizio (che sia un bar o una catena della grande distribuzione), quest’ultimo non verrà mai ripagato del 100% dell’importo del ticket. In poche parole: se il ticket ha il valore di 10 euro, una parte di quella cifra verrà trattenuta dalla società emettitrice e non incassata dall’esercizio. Proprio questa percentuale è la commissione. In questo senso, porre un tetto del 5% permette una regolarizzazione di un mercato che rischiava di «sottoporre le piccole imprese a costi eccessivi imposti unilateralmente dagli emettitori dei buoni», ha spiegato Confesercenti. Anche perché, continua l’associazione, alte percentuali spingevano ormai sempre più esercenti ha rifiutare il buono pasto come metodo valido di pagamento. Invalidando di fatto l’efficacia dello strumento di welfare.

I rischi per i consumatori e per gli esercenti

La situazione, però, potrebbe disegnarsi in una maniera ben più complessa. È difficile immaginare che il limite rigido alle commissioni imposto alle società emettitrici non comporti una scossa di riassestamento. Incassando di meno ogni ticket, è probabile che si registri un innalzamento del prezzo dei buoni pasto. Un aumento che andrebbe a ricadere proprio sulle aziende che trattano con queste società: se una volta con la cifra X si acquistavano 200 buoni, ora solo 150 o 100. Le conseguenze da questo punto di vista sono facilmente intuibili.

Se l’azienda si impegnerà a mantenere intatto il livello di welfare garantito ai dipendenti, questo le comporterà un aumento dei costi. In caso contrario, anche solo mantenendo costante la cifra impegnata nell’acquisto dei buoni, si potrebbe registrare una diminuzione del numero di ticket concessi ai lavoratori. «Il nostro è un settore regolato da contratti: a monte c’è quello con le aziende, a valle quello con la rete commerciale. Siamo a oltre 300.000 contratti», ha spiegato il presidente di Anseb (Associazione nazionale società emettitrici buoni pasto), Matteo Orlandini. «C’è un libero mercato che regola al meglio. Senza questo avremmo un aumento dei costi per le aziende e un servizio peggiore per i lavoratori». Secondo Anseb, la misura del 2022 è costata alla pubblica amministrazione oltre 100 milioni di euro in più. E le stime riguardo al privato si aggirano intorno a 180 milioni annui, cioè 153 euro per lavoratore. Ma questa volta a pagare sono le aziende stesse.

Quando sarà applicato il tetto

L’emendamento, in realtà, non entrerà in vigore immediatamente. È previsto infatti un periodo di transizione fino al prossimo 31 agosto 2025, durante il quale i contratti in piedi con le società emettitrici rimarranno in vigore agli attuali parametri. Una mancanza di tempestività criticata da Ancc-Coop: «L’eccessiva dilazione dei tempi mal si concilia con le istante delle imprese distributive». Per gli esercizi che non hanno nessun accordo, invece, dal primo gennaio 2025 sarà applicato il tetto del 5%. «Per le società emettitrici sarà impossibile la gestione di oltre 300mila accordi, con immediate conseguenze sulla fruibilità dei buoni pasto», ha avvertito Orlandini. «Stiamo parlando di mettere mano in fretta e furia ad accordi con 150 mila aziende e 170 mila esercenti in tempistiche inattuabili, si rischia la paralisi di un insostituibile strumento di welfare e la cancellazione di un diritto acquisito per milioni di lavoratori». Insomma, quella che per le sigle dei pubblici esercizi è una grande vittoria, per Anseb è «la fine del mercato libero».

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