«Le donne vittime di violenza non hanno diritto all’avvocato d’ufficio, chi le aggredisce sì. Così il codice rosso non funziona» – L’intervista
Giulia Cecchettin non è stata l’ultima. E probabilmente non lo saranno neppure le 84 donne uccise in ambito familiare/affettivo, di cui 51 per mano del compagno o dell’ex compagno, dal 1° gennaio al 17 novembre 2024. Il bilancio viene aggiornato settimanalmente dal ministero dell’Interno, ma riguarda più in generale gli omicidi volontari. L’Osservatorio nazionale di Non una di meno ne ha contati 104 tra «femminicidi, lesbicidi e transcidi». In Italia non esiste una banca dati pubblica in cui vengono registrati i casi. La disponibilità e l’accessibilità dei numeri è però fondamentale per definire il fenomeno e intraprendere azioni a livello politico-istituzionale anche per prevenire atti di violenza estrema. Sebbene l’esecutivo non abbia una reale consapevolezza del problema endemico della violenza di genere. Le parole del ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, ribadite dalla premier Giorgia Meloni, sulla «fine del patriarcato» e il riferimento all’immigrazione illegale lo confermano. Eppure, oltre alle leggi e all’applicazione delle stesse serve anche un cambiamento nel paradigma sociale e culturale in cui è radicata la stessa violenza. Senza programmi mirati di educazione sessuo-affettiva e alle relazioni sociali nelle scuole e nelle aziende, corsi di formazione che coinvolgano magistratura, forze dell’ordine, servizi sociali e investimenti di fondi regionali e statali, il lavoro di prevenzione rischia di essere vanificato.
Giornata internazionale contro la violenza sulle donne: perché si celebra il 25 novembre
«Il nuovo trend è che gli uomini vanno prima delle donne a denunciare»
Il femminicidio non si configura come un fatto isolato: è il tragico epilogo di una violenza che non si è riusciti a intercettare. Un gesto (estremo) che sottende una realtà complessa di oppressione, prevaricazione, persecuzioni, abusi, violazione sistematica dei diritti delle donne. Si tratta molto spesso di atti sommersi che, per tanti e diversi motivi tra cui lo stigma sociale, la vergogna, la paura di non essere credute, non vengono denunciati o resi noti. Persino sottostimati e minimizzati da chi dovrebbe essere in prima linea nel contrasto alle violenze maschili, siano esse di carattere fisico, sessuale, psicologico, economico e digitale. «Oggi esiste un new trend della violenza di genere: gli uomini vanno prima delle donne a denunciare», dice a Open Alessia Sorgato, avvocata penalista che si occupa prevalentemente di reati endofamigliari e di violenza contro i soggetti deboli e autrice del libro Ancora violenza? Istruzioni contro l’uso (Giuffrè Francis Lefebvre). «Negli ultimi dieci giorni mi sono arrivate cinque donne, cinque braccialetti elettronici, filmate dai mariti o compagni mentre fanno scenate, portate alla nevrosi, e puntualmente denunciate». Ma riconoscere i primi campanelli d’allarme della violenza maschile, le condotte misogine e discriminatorie fondate sulla disuguaglianza di genere e gli strumenti per contrastarle può fare la differenza. Non possiamo però delegare l’immenso lavoro e lasciare sole associazioni, fondazioni, centri anti-violenza e case rifugio. E non possiamo neppure chiedere alle donne di essere coraggiose. Perché la risposta è ovvia: «Non vogliamo essere coraggiose, vogliamo essere libere», come urlano le piazze.
Le leggi
Da una prospettiva giuridica, in Italia le norme in materia di prevenzione e contrasto al fenomeno della violenza, atti persecutori (stalking) e maltrattamenti contro le donne ci sono, ma devono essere integrate. E vanno, pure, rese efficaci. «La Convenzione di Istanbul (un trattato internazionale che l’Italia ha ratificato nel 2013, ndr) ha posto le basi per tutta una serie di normative, che per quanto riguarda l’Italia sono dieci in dieci anni. Dal 2013 al 2023 abbiamo tra ratifiche, esecuzioni di Convenzioni internazionali e leggi nazionali, innovato la materia in maniera tale per cui oggi si può dire – soprattutto con uno sguardo al resto d’Europa – che quella italiana sia una delle migliori. Perché abbiamo la normativa penalistica, civilistica e tutta una serie di prerogative di tipo amministrativo», sottolinea la legale.
Ma allora com’è possibile che abbiamo strumenti, che in molti giudicano all’avanguardia rispetto anche al resto d’Europa, ma continuiamo a contare i femminicidi? Camelia Ion, Celeste Palmieri e Roua Nabi sono state uccise dai loro ex mariti, tutti e tre denunciati alle forze dell’ordine, nonostante indossassero i braccialetti elettronici. Misure esplose con l’entrata in vigore del disegno di legge Roccella (il Codice rosso rafforzato) del 2023. Chiara Balistreri ha denunciato sui social la fuga dell’ex, che l’ha quasi uccisa, dagli arresti domiciliari. Poi fermato e arrestato lunedì scorso in Romania. Persino i divieti di avvicinamento molto spesso non vengono rispettati. Dai dati Istat emerge un trend in costante crescita per la violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (+18%). La violazione di tali misure cautelari, che sono appannaggio dei giudici, ha riaperto il dibattito su ciò che funziona e non funziona anche nell’impianto normativo messo in campo per contrastare la violenza di genere.
Codice Rosso: cos’è, quali reati ha introdotto e come tutela le donne vittime di violenza di genere
Il focus sul Codice Rosso (rafforzato)
Un anno fa circa erano tanti i politici a credere che «nessuna legge avrebbe potuto salvare Giulia Cecchettin». Anche se tutti avevano votato, mercoledì 22 novembre 2023 in Senato, la norma di Eugenia Roccella che ha rafforzato il codice rosso. Una sorta di deresponsabilizzazione della politica nei confronti di un fenomeno tutt’altro che in calo. La norma, che dovrebbe tutelare le donne e i soggetti che subiscono violenze, atti persecutori e maltrattamenti, ha introdotto nuovi reati, inasprito le pene per quelli già esistenti ed elaborato una procedura accelerata per chi vive situazioni di rischio. Ma spesso non funziona come dovrebbe. «Il codice rosso ha bisogno di fare ancora un po’ di strada – dice l’avvocata -. In primo luogo continua a mancare un ingrediente importante: ovvero il difensore d’ufficio della vittima. All’indagato, nell’attimo stesso in cui gli si notifica il fatto di essere sottoposto a un’indagine, viene fornito il nominativo e il numero di telefono di un legale che la stessa autorità giudiziaria ha individuato negli elenchi», spiega Sorgato. La donna vittima di violenza che ha sporto denuncia, querela o che ha fatto una segnalazione – un percorso di consapevolezza che già in partenza e per vari motivi è complesso, e che molto spesso viene ritrattato – deve, invece, cercare da sola un avvocato.
Ma è bene ricordare che «ha diritto al gratuito patrocinio entro un certo limite di legge (circa 12mila euro). Mentre per i reati quali maltrattamenti, violenza sessuale, atti persecutori e mutilazioni genitali femminili le donne hanno diritto alla difesa legale gratuita qualunque sia il reddito». Ma non solo: possono beneficiare di permessi retribuiti; con una denuncia per reati endofamiliari (violenza fisica o psicologica, maltrattamenti, mancato mantenimento ecc.) il sostegno psicologico è inoltre a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Moltissime associazioni prevedono, inoltre, la possibilità di colloqui psicologici a prezzi calmierati o gratuiti.
L’estromissione del difensore della vittima
Nella difesa della vittima ci sono, però, ulteriori problematiche. Il difensore della donna viene, infatti, estromesso da alcune fasi della procedura penale. «Poniamo che l’uomo sia stato identificato, indagato, processato e condannato. “E adesso?”, mi chiedono sempre le vittime – dice la legale -. Si aprono vari scenari: c’è tutta una parte recente sui trattamenti criminologici che sono percorsi che vengono impartiti a lui, ma che non coinvolgono la donna. Perché la mediazione penale per i reati da Convenzione di Istanbul è vietata», precisa. Ciò significa che dopo la condanna il difensore della vittima è fuori da tutte le aule, prima fra tutte quella del tribunale di sorveglianza, dove il soggetto può chiedere di uscire dal carcere, dal percorso penitenziario, e rientrare nella società. «Vi pare possibile che non abbiamo interlocuzione? L’opinione della vittima non vale nulla? Ci sono donne che mi chiamano e mi dicono: “Ha suonato al campanello di casa e mi ha fatto vedere che non ha alcuna restrizione e io non lo sapevo. Cosa devo fare?” Queste sono le cose da attuare: non soltanto l’obbligo di sentire la donna entro tre giorni (previsto dal Codice, ndr) dalla denuncia».
Anche perché l’accelerazione della procedura fine a se stessa molto spesso non porta a una maggiore tutela della vittima. Da una parte non è scontato che la donna sia pronta a raccontare nel dettaglio ciò che le accaduto dopo pochi giorni, al di là del singolo fatto denunciato, e dall’altra potrebbe essere invece già sufficiente il contenuto della denuncia. In altri casi, invece, i tre giorni non vengono rispettati. «Solitamente dopo pochi giorni dalla denuncia o dalla querela sono ben poche le novità – sottolinea Sorgato -. Tant’è vero che in molte procure è stato adottato un ciclo-stile: la denuncia è completa, non risentiamo la donna. Ma se invece si mettesse anche l’obbligo di riconvocarla prima di una decisione del pubblico ministero, come ad esempio la richiesta di archiviazione, sarebbe molto utile. Anche perché purtroppo nella pratica forense di tutti i giorni capita spesso di trovare fascicoli poco istruiti. Dentro ci sono pochi fogli e quindi il pm ritiene di non avere sufficienti prove per chiedere un rinvio a giudizio e processare il soggetto denunciato – afferma la legale -. Ma se in questo caso ci fosse l’obbligo di risentire la persona, si potrebbe intanto aggiornare la situazione. Chiedendole: “Com’è andata? Il tribunale dei minori è intervenuto? Siete sotto assistenti sociali?” Purtroppo alcune procure sono piuttosto facili alla richiesta di archiviazione», precisa.
«È il legislatore che deve innovare le norme, non la giurisprudenza»
In sostanza il Codice Rosso «potrebbe essere ulteriormente ossigenato», dice la legale. «Ma chi lo deve fare è il legislatore: ultimamente la Corte d’Assise, proprio nel caso Cecchettin, l’ha scritto nero su bianco: non è la giurisprudenza che deve innovare le norme, ma è il legislatore, che è un politico – continua -. E quando riforma, quando scrive i codici rossi, i codici rossi rafforzati, ha una piattaforma di interlocutori e interlocutrici con cui si confronta, ma forse non parla con la bassa manovalanza, ovvero con chi ha a che fare tutti i giorni, anche dentro le aule di tribunale, con queste donne». Le competenze di chi lavora per prevenire la violenza di genere non sono infatti solo giuridiche. Devono essere coinvolte altre figure, che siano in grado di comprendere le caratteristiche specifiche della vittima e quale sia la reale situazione di pericolo. «Il fatto che certi comportamenti insistenti e non graditi da chi li riceve possano trasformarsi in reato non è proprio appannaggio di tutti – dice Sorgato -. Neppure nelle stazioni di polizia o nelle caserme dei carabinieri: prima della legge che ha introdotto il 612 bis (atti persecutori, ndr), alle donne che andavano a dire: “Io ho paura” o “Me lo trovo sotto casa o sotto l’ufficio”, gli investigatori dicevano: “Altre pagherebbero per avere un uomo così galante” e loro tornavano a casa con gli stessi timori di prima. Poesie, fiori, cioccolatini sono persecuzioni se chi li riceve non li gradisce».
Perciò è fondamentale la presenza di professionisti specializzati e soprattutto formati che collaborino tra di loro. «Nel momento in cui si chiede aiuto non si viene ascoltati soltanto da una persona, bensì da un team composto da avvocati, volontari dei centri anti-violenza, psicologi forensi e mediatrici culturali. Ad esempio nelle associazioni con cui lavoro creiamo delle chat dedicate con varie figure – racconta -. Se ho a disposizione uno strumento di questo tipo e la donna vittima di violenza ci racconta che l’uomo allontanato è sotto casa oppure davanti alla scuola del figlio e lei non sa cosa fare, allora noi magari le spieghiamo che esiste la possibilità di storicizzare la fotografia tramite un app che garantisce come quella foto sia stata scattata in quel determinato momento. Oppure – continua – l’uomo mi continua a telefonare o mandare messaggi? C’è un’altra app che immagazzina tutta questa messaggistica e crea la copia conforme all’originale». Tutto ciò che viene raccolta verrà poi utilizzato con un’eventuale prova in fase di processo.
Dalla diffida alla denuncia: quali sono gli strumenti previsti dai Codici?
Oltre al necessario e sempre più urgente cambiamento socio-culturale e a un’integrazione a livello normativo, vi sono alcuni strumenti che i Codici mettono a disposizione delle donne per tutelarsi. Come ad esempio la diffida stragiudiziale, ovvero una lettera raccomandata che scrive il difensore della vittima per chiedere che il destinatario, come ad esempio lo stalker, cessi un comportamento ritenuto molesto o comunque dannoso. Mentre per quanto concerne le normative civiliste, il Tribunale può applicare i cosiddetti ordini di protezione. Ovvero un provvedimento con cui il giudice civile impone al coniuge o al convivente violento di non far ritorno alla propria abitazione. «La riforma del 2023 ha previsto un canale diretto tra le carte del giudice civile e quelle del magistrato penale», spiega la legale. Si arriva poi al secondo livello: l’ammonimento del questore (non è un’autorità giudiziaria, ma di polizia), cioè una formula amministrativa di diffida, una sorta di avvertimento. Ed essere già stati ammoniti diventa un’aggravante per tutti i reati che hanno a che fare con la violenza.
E, infine, si arriva alla querela con cui si esprime la volontà che si proceda per punire il colpevole. In questo caso lo Stato non si mette in mezzo, ma aspetta che sia la vittima a chiedere aiuto. A differenza della denuncia, che può essere presentata da chiunque, e che riguarda i reati perseguibili d’ufficio. Una volta che la notizia di reato (querela-denuncia) arriva al pubblico ministero è possibile ottenere, anche su istanza del difensore della vittima, l’emissione di provvedimenti specifici a tutela della stessa e dei figli. Si tratta delle cosiddette misure cautelari (tra cui l’allontanamento dalla casa familiare dell’autore delle violenze, il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, il braccialetto elettronico, gli arresti domiciliari ecc.), che però devono essere valutate caso per caso e presuppongono una attenta valutazione del rischio. Tali misure che sono appannaggio dei giudici: non possono essere richieste dal privato come nel caso dell’ammonimento. «Due settimane fa circa la Corte costituzionale si è espressa sui divieti di avvicinamento, domandandosi se quel limite dei 500 metri potesse essere derogato. Il giudice – precisa la legale – si è reso conto che in un centro piccolo la violazione di tale distanze era all’ordine del giorno. Ma la Corte ha confermato che i metri stabiliti rappresentano lo spazio minimo che dà alla vittima una certa tranquillità. L’indagato munito di braccialetto elettronico deve andare in farmacia? – si chiede – Si sposta in un paese vicino. Non possiamo mettere a repentaglio la tranquillità e la sicurezza della parte lesa».
La legge non basta
Eppure gli strumenti messi in campo in questi anni a livello legislativo non bastano per sradicare un fenomeno strutturale tutt’altro che in calo. Bisogna educare alla non-violenza. Serve, anche, forse soprattutto, una Rivoluzione culturale, che passa dall’impegno di tutti. Non è sufficiente l’inasprimento delle pene, non basta neanche dare supporto alle donne vittime di violenza. E, certamente, non aiuta negare l’esistenza del sistema patriarcale. «Uscire dalla violenza si può e si deve», conclude Sorgato. Ma è fondamentale riconoscere la violenza di genere come un fenomeno endemico che riguarda tutti per poter implementare misure, strumenti, normative che possano contrastarlo. A partire dalle scuole.
Foto copertina: ANSA/ANDREA FASANI