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Sara, la violenza sul lavoro e l’omertà dei colleghi: «Attorno a me solo silenzio, anche dalle colleghe. Ora ho paura persino ai colloqui» – L’intervista

25 Novembre 2024 - 07:13 Alessandra Mancini
violenza contro le donne storie donne
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Abbiamo raccolto la testimonianza di una donna vittima di molestie sessuali e mobbing.

Sara (nome di fantasia) è una della tante vittime di molestie sessuali sul luogo di lavoro e mobbing. Durante il colloquio per il ruolo di impiegata amministrativa, quello che sarebbe diventato di lì a poco il suo capo le chiede se è sposata e se ha intenzione di avere figli. Sara risponde con uno dei più classici: «Non è tra le mie priorità in questo momento». È vero, ma è già un primo campanello d’allarme. Viene selezionata per ricoprire la posizione ed entra in azienda. A poche settimane dall’assunzione cominciano le prime molestie da parte del superiore, tutte indirizzate al suo aspetto fisico: «Come sei carina» o «Che bel vestito indossi oggi». Passa un mese e il capo le propone una trasferta di lavoro fuori città con la promessa di un avanzamento di carriera. «Un’opportunità di crescita all’interno dell’azienda», pensa. Durante il viaggio, però, le molestie si fanno sempre più pesanti: «Siediti vicino a me» oppure «Fammi un grattino», le chiede più volte il suo superiore. Terminata la giornata di lavoro, la invita a cena. Le avances si fanno più pressanti: «Mi chiede di salire in camera con lui per fare un bagno nella vasca idromassaggio», dice. E, infine, prova più volte a baciarla. Sara «inerme e impaurita» lo allontana. Ma il giorno dopo il suo capo la costringe a interrompere la trasferta e a rientrare nella sede di lavoro principale. Da quel momento le cose precipitano. Le sue poche finanze, il lavoro dei sogni, la presenza saltuaria del suo capo in ufficio convincono Sara a tenersi stretta il posto di lavoro. I comportamenti abusanti in azienda molto spesso si intrecciano infatti con dinamiche di precarietà, gerarchia e prevaricazione

Dopo che Sara è tornata in azienda, la società le propone un trasferimento nel Nord Italia. Lei accetta: «un’opportunità per lasciarsi alle spalle ciò che ho subito, ma anche la possibilità di guadagnare più soldi», afferma. Eppure, neanche la distanza frena il suo molestatore. Iniziano così gli abusi più subdoli e nascosti, durati per oltre tre anni: comincia a ostacolarla in ogni fase del lavoro, riesce persino a farle dare dall’azienda meno mansioni e responsabilità. E, infine, il capo la licenzia. Con l’inganno. «Vengo accusata di avere apposto una firma falsa a suo nome», racconta. Sebbene tutti conoscessero la situazione, i colleghi non hanno aiutato Sara: «Mi hanno pure riempita di bugie – afferma -. Pensavo che ci fosse un po’ di complicità, un po’ di aiuto anche tra colleghe donne, invece sono stata allontanata», racconta. È stato un trauma. E lo è tuttora. «Non volevo più lavorare – dice -. Ai colloqui di lavoro se ci sono uomini mi blocco. Mi sono sentita nuda, esposta, e pure in colpa». Più volte si è chiesta se non fosse all’altezza del lavoro o delle responsabilità; se avesse sbagliato qualcosa. «All’epoca non sono riuscita a parlarne con nessuno, né a denunciare, ma se qualunque donna dovesse trovarsi nella mia stessa situazione deve agire subito e rompere il silenzio». 

Come accade per ogni forma di violenza denunciare non è così immediato. Molte persone minimizzano l’accaduto per paura di eventuali ritorsioni o tendono a non vedersi come vittime. Secondo il sondaggio di WeWorld in collaborazione con Ipsos (Non staremo al nostro posto. Per il diritto a un lavoro libero da molestie e violenze) una delle ragioni principali per cui chi subisce violenza non denuncia è la paura di perdere il lavoro (62 per cento delle donne). Molte vittime hanno il timore di ritorsioni da parte di chi ha commesso la violenza, altre pensano invece che denunciare non servirebbe a nulla. Per il 26% delle donne, rileva la statistica, il motivo principale è il la paura di non essere credute. Più in generale, secondo la rilevazione il 60 per cento di lavoratori e lavoratrici è a conoscenza di episodi di violenza avvenuti sul proprio luogo di lavoro; circa il 40 per cento ha assistito e/o subito a episodi di violenza negli uffici. Gli autori sono soprattuto capi o colleghi uomini, seguiti da colleghe e cape donne. Molestie e violenze sono espressione di una relazione di potere: tra uomini, donne e altre identità di genere. Nonostante abbiano una natura per certi versi “democratica”, tendono però a colpire maggiormente persone che subiscono forme cumulative di discriminazione, come le donne. «Oggi la violenza è legata anche all’estrema precarizzazione del lavoro femminile. Ciò significa che alle molestie e al mobbing si aggiungono i contratti a termine che possono essere rinnovati senza limiti, la segregazione occupazionale e la disparità salariale, che pongono le lavoratrici in una condizione di grande ricattabilità, costrette ad accettare condizioni e organizzazione del lavoro diseguali», si legge nel report. Ora Sara sta provando a ricostruire. Non è facile. Ma porre fine alla violenza e alle molestie sul lavoro è indissolubilmente legato al raggiungimento della parità di genere in tutti gli ambiti della società.

Foto copertina: ANSA/LUCA VECCHIATO

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