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«Più dati (e più aggiornati), più campagne rivolte ai maschi, più investimenti sull’educazione»: le battaglie culturali contro la violenza di genere – L’intervista

25 Novembre 2024 - 17:32 Alessandra Mancini
violenza sulle donne cambiamento culturale intervista
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In dieci anni la percezione socio-culturale della violenza di genere non è cambiata: «L'Italia è ancora spaccata a metà: tra chi crede sia un fenomeno strutturarle, chi colpevolizza le vittime e chi invece crede sia qualcosa di distante dalla propria quotidianità», spiega a Open Martina Albini, coordinatrice Advocacy Nazionale e Centro Studi di WeWorld

Fisica, sessuale, psicologica, economica e poi digitale. Sono le forme di violenza enunciate dalla Convenzione di Istanbul del 2011 (ratificata dall’Italia nel 2013). Nel 2023 in Italia, stando al report della polizia di stato, le richieste di aiuto e intervento per episodi di “violenza domestica o di genere” subita dalle donne sono state 13.793. Nel 61,5% dei casi l’autore risulta legato alla vittima da una relazione di tipo sentimentale, attuale o passata. In due casi su cinque, sono presenti anche minori coabitanti. In aumento «i casi di stalking, maltrattamenti in famiglia e violenze sessuali», si legge nel rapporto del Servizio analisi criminale della Direzione centrale polizia criminale diffuso in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne. Nei primi sei mesi del 2024 c’è stata una crescita del 6% degli atti persecutori (reato che colpisce le donne nel 74% dei casi) e del 15% dei maltrattamenti contro familiari e conviventi (che interessano le donne nell’81% dei casi). Inoltre, dal 1 gennaio al 30 settembre 2024, il numero antiviolenza 1522 ha avuto 48mila contatti, tra telefonate, app e chat, con un +57% rispetto ai primi 9 mesi del 2023. La violenza maschile contro le donne colpisce in maniera trasversale a prescindere da età, etnia, livello di istruzione o classe sociale. Un fenomeno strutturale che assume forme diverse, spesso molto subdole, che è importante saper riconoscere. La matrice resta però la medesima: il meccanismo di prevaricazione maschile volto a mantenere, anche inconsapevolmente, quell’asimmetria sociale che si è storicamente radicata. 

Le forme della violenza

La violenza contro le donne non è solo quella sessuale o fisica. «Una domanda che abbiamo fatto in una delle ultime indagini è stata: “Nella lista delle forme di violenza, qual è quella più grave?” – spiega a Open Martina Albini, coordinatrice Advocacy Nazionale e Centro Studi di WeWorld. La risposta dovrebbe essere “Non c’è una forma di violenza più grave delle altre”, anche perché tendenzialmente non si presenta mai una forma di violenza da sola. Però – continua la ricercatrice – dalle rilevazioni emerge come per 1 persona su 2 la violenza sessuale sia al primo posto, segue per 1 persona su 4 quella fisica e poi con grandissimo distacco arriva (1 o 2 punti percentuali) la violenza economica e quella psicologica». Ciò significa che «permane questo retro-pensiero per cui alcuni comportamenti, che sono comunque abusanti, non siano violenze». Riconoscere i campanelli d’allarme di un comportamento violento non è, però, così semplice o immediato. «Nel sondaggio abbiamo poi chiesto al campione di persone: “Hai mai subito violenza?”. Molte di loro ci hanno risposto inizialmente con un secco “no”. Quando poi gli abbiamo fornito la lista dei comportamenti abusanti, tra il campione che ci aveva detto di non aver mai subito violenza, 1 persona su 3 in realtà era stata vittima di uno di quei comportamenti violenti».

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Le radici (culturali) della violenza

Contrastare e prevenire il fenomeno della violenza richiede innanzitutto una maggiore e migliore comprensione dello stesso e per farlo è fondamentale andare alla radice dei meccanismi che ne stanno alla base, che perpetuano gli stereotipi di genere e le asimmetrie sociali. «La violenza è innanzitutto una forma di potere: deriva da un modello maschile che vogliamo chiamare patriarcato. Utilizziamo le giuste parole, poi che si dica che dal 1975 la famiglia patriarcale non esiste più, d’accordo. Ma noi – continua Albini – non stiamo parlando di quello. Bensì di un costrutto sociale, culturale, patriarcale. E del fatto – sottolinea – che noi donne veniamo educate all’interno di un contesto patriarcale, con un’educazione di stampo patriarcale. Se noi cresciamo in una società che dice alle bambine o alle ragazze che si deve proteggere vuol dire che c’è qualcosa che non funziona. Gli stereotipi e le aspettative sociali create dagli stessi portano ad asimmetrie di potere. Storicamente il potere è sempre stato nelle mani degli uomini e la violenza non è altro che una delle tante manifestazioni del potere degli uomini, in questo caso della violenza maschile contro le donne».

«Nessun cambiamento in 10 anni»

In dieci anni, stando alle indagini effettuate dal centro studi WeWorld, sembra non essere cambiata la percezione socio-culturale sulla violenza di genere. L’Italia è sostanzialmente spaccata a metà: abbiamo una parte di persone che sono «assolutamente consapevoli del fatto che la violenza sia un fenomeno strutturale ed endemico». Nell’altra metà del Paese c’è lo “zoccolo duro”, ovvero i «negazionisti della violenza di genere, che credono sia frutto di comportamenti provocatori delle donne, ovvero il classico: se l’è cercata. L’altra parte – continua l’esperta – che è quella su cui dovremmo agire crede invece che la violenza sia un problema, ma che si tratti di una questione familiare, per intenderci il tipico caso: Io non mi intrometto, se la risolvano tra loro». 

La stessa fotografia, di un Paese diviso a metà, si ripropone a distanza di 10 anni. E nonostante il dibattito sia molto cambiato. «Ci sono una serie di episodi che hanno permesso tale cambiamento – precisa -: dall’attuazione del Codice rosso all’istituzione della commissione sui femminicidi e una serie di casi di cronaca molto pesanti che hanno scosso l’opinione pubblica come l’uccisione di Giulia Cecchettin». Se ne parla di più, se ne parla meglio. «Nel 2014 anche solo pensare di nominare la parola patriarcato non sarebbe stato possibile, benché faccia tutt’oggi saltare dalla sedia molte persone perché scattano tutti quei meccanismi difensivi del tipo “non tutti gli uomini sono violenti” e questo è vero, ma dovrebbero prendersi la responsabilità di agire». Eppure, non è sufficiente. «Forse anche per l’incapacità a livello governativo di far passare un messaggio più ampio», dice la ricercatrice. «La maggior parte delle campagne di sensibilizzazione che noi vediamo fanno ricadere tutte le responsabilità sulla vittima. Non si parla mai di messa in discussione dei modelli di maschilità, non si crea mai – continua – un messaggio che parli agli uomini, una call to action agli uomini: “Guarda che sto parlando di te o magari di un tuo amico o di un tuo conoscente”».

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Abbattere alcuni gli stereotipi

La violenza non è solo quella sessuale e fisica, la gelosia può essere un campanello d’allarme. La maggior parte delle violenze avvengono tra le mura domestiche. Le cause della violenza non vanno di pari passo con quelle dell’immigrazione illegale: è ciò che ci dicono i dati. Come ci dimostrano che non esiste una vittima-tipo. «Le donne non dovrebbero pensare “A me non succederà mai”. Certo – precisa la ricercatrice – ci sono una serie di fattori che espongono maggiormente alla violenza, come fattori di vulnerabilità, fragilità condizione economica, età, disabilità». Però la violenza è “democratica”. «Durante la pandemia, ad esempio, è venuto fuori un grande problema di empowerment maschile: ovvero se in una coppia la donna è autonoma, ha un buon lavoro, una livello di istruzione elevato, magari più elevato di quello del marito e compagno, molto spesso, – dice Albini – l’uomo si sente sminuito nella sua posizione di uomo alfa, di breadwinner, di qualsiasi cosa sia stato abituato a pensare di essere e quindi agisce violenza».

Dai fondi all’educazione sessuo-affettiva nelle scuole: cosa fare a livello culturale

A livello socio-culturale c’è (ancora) tanto lavoro da fare. Stando al rapporto del GREVIO (2020), il gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica del Consiglio d’Europa, l’Italia ha un approccio eccessivamente punitivo e poco concentrato sulla prevenzione in materia di violenza di genere. Che per l’esecutivo sembra non essere vista come una priorità, e/o una responsabilità dello Stato. «Per prevenirla servono maggiori fondi e, soprattutto, l’efficientamento della distribuzione delle risorse perché ad oggi non è ben chiaro quale sia il criterio di distribuzione. Dopodiché – continua – bisognerebbe lavorare più capillarmente sul territorio: investire su presidi territoriali alterativi e luoghi di comunità in cui si possa parlare di violenza». E, infine, c’è il grande tema dell’educazione. «16 proposte di legge e nessuna è mai passata. Ora l’educazione alla sessualità e all’affettività, da linee guide uscite pochi mesi fa, è stata trasformata in una generica “educazione al rispetto”. Non stiamo parlando di questo – afferma l’esperta – ma di andare a lavorare sugli stereotipi, sulla de-costruzione dei ruoli di genere, dell’asimmetria di potere, non puoi ridurre tutto ciò al rispetto verso la donna. Dai un messaggio che si traduce in “le donne non si toccano neanche con un fiore”. E poi sarebbe inserito nelle 33 ore di educazione civica, all’interno delle quali si fanno educazione ambientale, stradale, lo studio della Costituzione. Ciò significa che il governo non sta prendendo il problema sul serio». 

La cultura del dato

E poi mancano dati pubblici e accessibili sul fenomeno della violenza di genere.  «L’indagine più citata dell’Istat, quella che ci dice che in Italia una donna su tre è vittima di violenza, risale a 10 anni fa. Ci sono i dataset che vengono aggiornati – spiega Albini -, però se non abbiamo una cultura del dato, criteri metodologici per la raccolta e l’analisi e far comprendere il dato stesso a chi lo legge, succede che un ministro dell’Istruzione dica che la violenza la fanno gli immigrati clandestini». Molto spesso i dati vengono resi inaccessibili appositamente. Come «nel caso dell’aborto». «Dobbiamo formare la popolazione a capire cosa significano questi dati, come nel caso del conteggio dei femminicidi, e poi trasformarli in conoscenza concreta. Nel momento in cui ho i dati, questi devono essere utilizzati per fare politiche integrate che è la quarta P della Convenzione di Istanbul (Prevenzione, Protezione, Procedimento contro il colpevole, ndr)», afferma. La consapevolezza della gravità del fenomeno e del suo radicamento culturale è il primo elemento che dovrebbe spingere la politica a ritenere prioritario un cambiamento profondo nella (e della) nostra società.

Foto copertina: ANSA/MASSIMO PERCOSSI

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