Con il cessate il fuoco in Libano la pace a Gaza è più vicina? In Medio Oriente non ci crede nessuno: «Israele resterà nella Striscia per anni»
Ma il cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah avvicina o allontana lo scenario di una fine delle ostilità anche a Gaza? È la domanda da un milione di dollari che tiene banco da ieri, quando s’è capito che l’intesa sul Libano era fatta. Ringalluzzita dal risultato diplomatico finalmente raggiunto dopo oltre un anno di estenuante lavoro, da ieri l’Amministrazione Usa (uscente) è tornata a spingere con forza sul pedale del cessate il fuoco anche tra Israele e Hamas: «L’intesa in Libano ora può favorire quella su Gaza», ha detto Antony Blinken chiudendo il G7 di Fiuggi. E nel dare notizia ufficiale dell’accordo raggiunto, poche ore dopo, lo stesso Joe Biden ha ridato fiato alle speranze annunciando per i prossimi giorni «un nuovo tentativo degli Usa insieme a Turchia, Egitto, Qatar, Israele e altri per ottenere un cessate il fuoco a Gaza». Dove finiscono i buoni auspici e dove inizia la reale opportunità di un cambio di scenario? Nei Paesi della regione in fiamme da un anno, nessuno sembra disposto a scommettere un centesimo su un secondo cessate il fuoco alle viste. A spegnere gli entusiasmi, da Roma, è il portavoce del ministro degli Esteri del Qatar, Paese del Golfo che dopo un anno di sforzi vani ha gettato la spugna, interrompendo la sua mediazione tra Israele e Hamas: «La sensazione è che una delle parti sia in vantaggio e quindi non abbia interesse ad un accordo», dice Majed al Ansari dal palco dei Med Dialogues. Criticando implicitamente la posizione di Israele, bollata come «miraggio della vittoria».
Libano e Gaza, due mondi a parte
Nei corridoi della maxi-conferenza organizzata dalla Farnesina con l’Ispi, dove sono presenti rappresentanti di quasi tutti i Paesi della regione, la musica non cambia, anzi: se sul Libano si alternano sospiri di sollievo a ragionamenti più articolati sui passi da compiere per consolidare la tregua, basta evocare la parola “Gaza” perché tutti scuotano la testa. «Lì è tutto diverso», ragiona con Open Abdulaziz Sager, presidente di un influente think-tank di marca saudita, il Gulf Research Center: «Gli israeliani vogliono ottenere molti obiettivi prima di chiudere quella guerra: smantellare Hamas, liberare gli ostaggi, evitare di liberare centinaia di prigionieri palestinesi». Come a dire: equazione impossibile, o quanto meno dalla soluzione ancora assai distante. Annuisce un ex ambasciatore italiano di peso che ha tessuto a lungo i fili del dialogo col mondo arabo: «Per ora non se ne esce…». Il perché lo spiega in modo più ricco e articolato uno dei più acuti analisti israeliani, Nimrod Goren: «Certo che sono scenari diversi, chi ha parlato di “Gazificazione” del Libano non ha colto la differenza cruciale tra i due fronti», spiega a Open il direttore del think-tank Mitvim. «In Libano non c’era alcuna componente ideologica per Israele – occupazione, insediamenti – ma solo un calcolo di sicurezza: fare in modo che Hezbollah non potesse più porre una seria minaccia, e consentire il ritorno a casa alle decine di migliaia di abitanti del Nord evacuati. Un anno fa e per mesi c’è stato il rischio che potesse accadere un nuovo attacco come quello del 7 ottobre dal fronte nord: ora le capacità di Hezbollah sono state pesantemente danneggiate e quella possibilità non c’è più. E se puoi assicurarti che vi siano meccanismi internazionali che garantiscono la sicurezza di Israele, ed evitare così di restare invischiato in Libano con perdite pesanti come già successo in passato, è saggia cosa cogliere l’opportunità. Questo ha fatto Benjamin Netanyahu».
Il piano di Netanyahu per «ripulire» Gaza da Hamas
È segreto di Pulcinella che a “sbloccare” il premier israeliano sullo stop alla guerra a nord sia stata però la rielezione di Donald Trump – amico di Netanyahu sì, ma che gli chiedeva risposte certe da poter presentare ai propri elettori cui ha promesso in pompa magna «la fine delle guerre». Messo a punto e finalizzato dall’Amministrazione Biden, l’accordo di cessate il fuoco ha avuto con ogni probabilità l’imprimatur di Trump, cui un inviato di Netanyahu ha fatto visita a Mar-a-Lago già poche ore dopo la rielezione. Perché allora il tycoon non dovrebbe presentare il conto a Bibi anche su Gaza? Il diavolo sta e starà nei dettagli, avverte Goren: «Potremmo arrivare a sentire Netanyahu dire che “la guerra è finita”, così da compiacere Trump. Ma questo non porterà a un ritiro delle forze israeliane. Netanyahu vuole mantenere una presenza militare nella Striscia per tutto il tempo che sarà necessario a finire il lavoro con Hamas. Senza contare che gli alleati alla sua destra premono addirittura per nuovi insediamenti nella Striscia». Un cessate il fuoco senza cessarlo davvero, dunque? «Netanyahu non userà mai questo termine, potrebbe però parlare di “fine della guerra”, come piace a Trump, per tenersi poi aperta la strada del modello seguito da Israele in Cisgiordania vent’anni fa: dopo l’ondata di attacchi kamikaze della Seconda Intifada, Israele condusse lì una grossa operazione militare, e poi ha continuato a operare in modo mirato ogni volta che c’erano segnali di rafforzamento di Hamas e altri gruppi terroristici, sino a smantellare le loro capacità e mettere fine agli attentati. Israele potrebbe operare così anche nella Striscia, mantenendo una presenza militare in luoghi strategici per condurre operazioni necessarie di “ripulitura” finché sarà necessario». Quanto potrebbe volerci? «Realisticamente due o tre anni».
Il rifiuto dello Stato palestinese e la frustrazione dei Paesi arabi
Se sul piano militare questo potrebbe essere lo scenario, a preoccupare almeno altrettanto gli osservatori del mondo arabo è quello che (non) si muoverà in parallelo sul piano diplomatico. A non farsi illudere dallo specchietto per le allodole dello «stop alle guerre» di Trump invita un esperto di questioni libanesi come Joseph Bahout. «Certo, in teoria oggi ci sarebbe l’opportunità di iniziare a rimettere insieme i cocci dalle macerie di Gaza, in direzione di una riunificazione palestinese», magari sotto l’egida dell’Anp, come ha chiesto nero su bianco ieri il G7, ragiona il docente di affari internazionali dell’American University di Beirut. «Ma ormai da decenni assistiamo a un metodico, certosino lavoro di demolizione dell’idea di uno Stato palestinese», da parte della destra israeliana e dei suoi alleati in America. Ed è indispensabile notare come ora quell’idea sia arrivata al cuore del governo tanto a Gerusalemme quanto a Washington: «Oggi in Israele nessuno vuole sentirne parlare, e ora avremo un ambasciatore Usa in Israele e viceversa entrambi pronti a dire senza problemi che non esiste alcun orizzonte di statualità palestinese». Ecco perché ad oggi pare così difficile intravedere emergere un percorso politico dalle macerie di Gaza. Per la frustrazione perfino di un Paese della regione che con Israele, paradossalmente, non vedrebbe l’ora di allacciare rapporti nuovi: l’Arabia Saudita. «Noi sosteniamo tutti gli sforzi in direzione dell’integrazione e della prosperità regionale», risponde sempre da Roma un alto dirigente di Riyad come Rayed Krimli a chi gli chiede della possibilità che l’Arabia firmi gli Accordi di Abramo con lo Stato ebraico. Ma, richiama preoccupato, «non c’è sostituto possibile al riconoscimento dei diritti legittimi del popolo palestinese e alla soluzione a due Stati quale precondizione per la pace e la stabilità della regione. E non ci sarà modo di arrivarci se non con un ruolo guida dell’America». Welcome, Mr. Trump.