Al via l’ultimo vertice Nato prima di Trump. Minuto Rizzo: «L’Ucraina resterà fuori. Bush sbagliò a insistere per l’ingresso» – L’intervista
Che garanzie può dare la Nato a un’Ucraina sempre più in difficoltà di fronte all’avanzata delle truppe russe? È il dilemma sul tavolo dei ministri degli Esteri dei 32 Paesi membri che si riuniscono da questo pomeriggio a Bruxelles nell’ultimo vertice dell’Alleanza dell’era Biden. Incombe lo spettro di Donald Trump, e di una sconfitta dell’Ucraina che rischia di mettere in pericolo l’Europa intera. Eppure, con Francia e Germania politicamente al tappeto, proprio la “piccola” Italia può avere un ruolo chiave da giocare in questo scenario, se Giorgia Meloni giocherà bene le sue carte. È il senso dell’analisi che condivide con Open alla vigilia del vertice Alessandro Minuto Rizzo, già vicesegretario generale della Nato al termine di una lunga carriera diplomatica che lo ha visto anche ambasciatore italiano presso l’Ue e poi consigliere diplomatico di tre ministri della Difesa. Compreso l’attuale capo dello Stato, che con la premier, pur da traiettorie politiche molto diverse, condivide in fondo un grande merito, suggerisce sottovoce Minuto Rizzo: aver saputo tenere insieme la vocazione atlantica dell’Italia con quella europea.
Ambasciatore, Volodymyr Zelensky chiede alla Nato di rompere gli indugi e invitare formalmente l’Ucraina a entrare nell’Alleanza. Che risposta arriverà dal vertice di oggi e domani?
«La Nato non dirà di sì, mi prendo la responsabilità della previsione. Capisco l’Ucraina, naturalmente, ma la Nato – lo dice il nome stesso – è un’Alleanza: non si decide per voto, ma per consenso. Non credo che i Paesi europei né la stessa amministrazione Biden siano disposti oggi ad accogliere l’Ucraina nella Nato».
Significa voltarsi dall’altra rispetto all’ansia di sicurezza di Kiev?
«No. Ci possono essere altri strumenti opportuni, come un accordo ampio – anche oltre l’Occidente – su garanzie internazionali per l’integrità territoriale dell’Ucraina. La Nato esprimerà massima solidarietà e darà a Kiev quanto più armi possibili. Fermo restando, ricordiamolo, che la Nato non è implicata in Ucraina: sono i singoli Paesi che hanno accordi per inviare le armi».
Dopo la vittoria di Trump alle elezioni Usa Biden ha rotto gli indugi consentendo a Kiev di usare missili a lungo raggio e perfino mine anti-uomo contro la Russia. Un azzardo?
«Ma no, a me pare quasi un assist a Trump. Biden va via tra meno di due mesi: ha preso questa misura simbolica, così sarà poi facilissimo per Trump dire “Guardate come suono buono, ora la disdico”».
Una posta più alta per fare in modo che Trump non azzeri le armi a Kiev?
«Lui è un egocentrico, ed è affascinato da Putin. Ha promesso di chiudere la guerra per non spendere più soldi dei contribuenti americani laggiù quindi cercherà di convincere Kiev a far delle concessioni. Ma penso gli ucraini ora siano disposti a farle, perché la popolazione, bombardata ogni giorno, è stufa, stremata, disperata. Dunque potrebbe accettare di lasciare alla Russia i territori che ha occupato, se in cambio avrà assicurazioni che il resto non si tocca e un impegno concreto a entrare nell’Ue».
Resta da capire se Putin si accontenterebbe di un risultato simile, o s’ingolosirebbe di una nuova preda. Sulla Georgia il Cremlino già non nasconde le sue mire.
«Certo, questo è lo scenario da scongiurare. D’altronde sono i due Paesi su cui la Nato a Bucarest nel 2008 investì promettendo un futuro ingresso nell’Alleanza».
I russi considerano quell’impegno come una provocazione, se non una giustificazione per la guerra poi scatenata; l’Ucraina come una promessa rimasta a metà, che ha consentito a Putin di aggredirla. Lei, fino a pochi mesi prima vicesegretario generale della Nato, che giudizio ne dà?
«Fu l’Amministrazione Usa di George W. Bush a essere troppo rigida. Insistevano per inserire addirittura una data d’ingresso per Ucraina e Georgia. Gli europei dissero di no, e nel comunicato si disse che “un giorno” sarebbero diventati membri della Nato. Passaggio non a caso mai più ripetuto nei 15 anni successivi».
Nessun errore da parte dei leader europei nei confronti di Putin, dunque, come dice Angela Merkel nelle sue memorie?
«Ma sì, sicuramente ce ne sono stati, ma dobbiamo sempre guardare i fenomeni nella loro complessità. Se non lascio passare prima una signora poi mi devo prendere un calcio? Ecco. No, non è colpa nostra».
In Germania è caduto il governo, in Francia quasi, negli Usa scalda i motori Donald Trump. Un’autostrada politica, almeno sulla carta, per l’Italia. Questo governo ha la caratura internazionale necessaria?
«A prescindere dalle simpatie politiche, va riconosciuto che la presidente del Consiglio è brava. Dirò di più, quest’Italia ha un profilo politico maggiore che in passato. E per un motivo essenziale».
Quale?
«Che finalmente l’Italia, nota per aver cominciato le guerre su un versante e poi terminate su quello opposto, ha una posizione chiara. Si è profilata sulla questione dell’Ucraina, e la nomina di Fitto alla gestione di fondi strutturali e Recovery Fund, checché ne dicano i critici, certifica questo successo. E sì, se si muoverà bene questo governo potrebbe fungere da ponte tra Europa e Stati Uniti».
L’altro punto di riferimento dell’Italia nel mondo è Sergio Mattarella. Lei fu suo consigliere diplomatico quando era ministro della Difesa. Come lo ricorda in quella veste?
«Una persona di grande correttezza, un uomo di princìpi, che interpretava il compito di ministro in modo estremamente serio, come oggi non sempre è il caso. Non credo avesse una particolare simpatia o propensione verso i militari. Essendo lui un cattolico, oltre tutto, aveva delle difficoltà di fronte alle posizioni anti-militariste della Chiesa. Lui sapeva ascoltare le posizioni, interpretare, ma poi decidere e tenere la linea. Ed è grazie a uomini come lui o Nino Andreatta se l’Italia ha saputo restare coerente
alla scelta di fondo fatta dopo la guerra: la fedeltà atlantica insieme a quella europeista».
L’anti-militarismo della Chiesa ha frenato la propensione internazionale dell’Italia?
«È stato oggettivamente un problema. In certi ambienti veniva considerato poco civilizzato occuparsi di armi, le banche che finanziavano quel tipo di transazioni venivano messe in una lista nera: queste cose hanno un effetto sulla politica di un Paese».
Ora le cose stanno cambiando?
«Sì, mi pare che tutto questo ora s’è un po’ attenuato. È ovvio, d’altra parte, il mondo va in un’altra direzione, e dobbiamo difenderci».
Anche a sinistra vede un ritardo culturale su questo tema?
«È evidente che c’è ancora da compiere un percorso di maturazione. Tutti siamo pacifisti, lo sono io come lo è lei. Il problema è che viviamo in un mondo la cui gran parte non considera la pace un bene assoluto. Non possiamo finire soggiogati. Quindi certo bisogna lavorare per la pace ed essere attivi nelle organizzazioni internazionali di cui Italia è parte, ma contemporaneamente riconoscere che molti attori nel mondo non sono democratici e sono facilmente tentati di approfittare dei punti deboli delle nostre democrazie per sottometterci. Bisogna convincere la gente che questa minaccia esiste».
Per poi agire in che direzione?
«Senza troppe scosse aumentare gradualmente il bilancio per la difesa, costruire un’industria della difesa un po’ più forte e restare coerenti con Europa e Usa. In 3-4 anni potremmo già vedere cambiamenti importanti».