Vino senza alcol, l’enologo Cotarella: «Come togliere sangue a una persona, ma un male necessario per il mercato in crisi»
Dopo la bozza di decreto presentata dal ministro dell’agricoltura Francesco Lollobrigida, l’idea di una produzione italiana di vino senza alcol diventa sempre più concreta. Non una novità per il mercato estero, già abituato alla nuova frontiera da diverso tempo. L’Italia finora era rimasta a guardare, fedele al divieto sancito dall’impianto normativo nazionale di chiamare “vino” qualunque bevanda con un tasso alcolico inferiore agli 8,5 gradi. Ora il passo sembra possibile, con non pochi dubbi e timori di chi ne fa prima di tutto una questione di tradizione e patrimonio culturale. A commentare la decisione con Open è Riccardo Cotarella, uno dei più autorevoli enologi del panorama nazionale e internazionale. Produttore appassionato, ma ancora prima scienziato del vino spiega il peso di una decisione del genere non solo in termini di mercato ma anche dal punto di vista della salute.
Cotarella, l’Italia produttrice di vino senza alcol. Che effetto le fa?
«Non le nascondo che è stato un duro colpo. Ho ritenuto la decisione un’azione scriteriata che andava a togliere una componente essenziale del vino, che vino non è più. E questo anche considerando il fatto che fino a qualche tempo fa la tecnologia estrattiva dell’alcol era del tutto provvisoria, con un risultato qualitativo veramente orrendo. Poi un altro elemento ha attenuato la mia ostilità».
Quale?
«Lo sguardo al mercato: c’è una parte di popolazione mondiale che non beve vino o perché astemia, o per motivi religiosi, o per semplici pregiudizi, che però gradirebbe avere un prodotto che gli ricordi in qualche modo il vino. Ecco la strada della bevanda dealcolizzata potrebbe essere uno strumento per farli avvicinare al vino vero. Un passo avanti soprattutto per una delle più grosse difficoltà di mercato in cui attualmente si trova il nostro Paese e cioè la sovraproduzione».
Quindi alla fine è d’accordo?
«Lo definirei un male necessario. Un’altra considerazione in termini di mercato è che se non lo facciamo noi altri Paesi lo faranno e lo stanno già facendo. Francia, Spagna, Germania, America, stanno andando in questa direzione. Legarsi a provvedimenti ideologici non so quanto potrà ancora funzionare, considerando che in Italia si produce più vino di quanto se ne consuma. Potrebbe essere una via d’uscita per una crisi che è in grado di crescere fino ad appesantire in maniera determinante le aziende. In più c’è da considerare che la tecnologia ha fatto grossi passi avanti negli ultimi anni, rendendoci in grado di garantire un discreto risultato qualitativo. Alla luce di questo dico “ok proviamo” ma a una condizione: che non venga chiamato “vino”. E su questo punto siamo l’unico Paese a difendere una questione di principio e sostanza allo stesso tempo, specialmente nella comunità europea. La sorpresa più grande è stata la Francia che è a favore di utilizzare il termine vino anche per qualcosa che vino non è. Mi rendo conto ancora una volta che in Italia abbiamo tutt’altro approccio sulla difesa di un prodotto che è tradizione. Poi c’è un’altra condizione».
Quale?
«Che ci si adoperi affinché i vini dealcolati abbiano una qualità che non snaturi l’idea del vino stesso. C’è un tema di percezione da non sottovalutare, visto che stiamo parlando di cultura prima che di un prodotto. Se metto sul mercato bevande di scarsa qualità chiamandole vino, andrà a danneggiare anche il mercato vitivinicolo originario. Il punto è che ci dobbiamo adoperare affinché i vini dealcolati abbiano una qualità che non snaturi l’idea e l’amore per il vino vero».
Parla di qualità, che tipo di vini sono più adatti a essere utilizzati in questa operazione “no alcol”?
«Intanto specifichiamo che in questa operazione sono esclusi tutti i vini doc e a indicazione geografica, un elemento importante affinché non si intacchi la nostra bandiera a livello comunicativo. Per garantire la qualità di una bevanda dealcolizzata è necessario prendere in considerazione soprattutto le varietà aromatiche: l’aroma non viene distrutto durante l’operazione di sottrazione dell’alcol, e di per sé rappresenta un elemento che invita al consumo. In più è in grado di mascherare gli eventuali difetti olfattivi che potrebbero derivare dalle procedure di dealcolizzazione. Poi sicuramente i vini non tannici, sono quelli più adatti e meno danneggiati».
Il dibattito sul consumo di vino è spesso legato anche a una questione di salute. Il processo di dealcolizzazione comporta eventuali aggiunte di elementi compensativi non salutari?
«Non si aggiunge nessun prodotto, si toglie alcol e basta. Senza contare il divieto normativo di aumentare il tenore zuccherino del mosto e aggiungere acqua o aromi al prodotto. Il problema è che qualunque intervento riguardi il vino ormai diventa bersaglio di accuse a priori. L’unica preoccupazione da avere su questa operazione è il rischio di mettere sul mercato prodotti squilibrati, che vanno a danneggiare secoli di tradizione. Per questo chiedo agli enologi massima attenzione, non bisogna solo togliere alcol, bisogna fare vini buoni».
A cosa bisogna stare attenti nello specifico?
«L’alcol non è un protettore del vino per quanto riguarda l’aspetto ossidativo o i problemi di stabilità di colore. Questi rimangono aspetti che possiamo garantire a prescindere dal processo estrattivo e su cui dobbiamo fare attenzione più di prima. Certamente quello che non potremmo più fare togliendo alcol è parlare di vini da invecchiamento. Qualcosa cambierà nella degustazione, mancherà il sentore di calore, di sofficità che dà l’alcol. Saranno soltanto vini giovani, da consumare presto e a bassa temperatura, anche perché per quanto l’enologo sia bravo e per quanto la tecnologia ci aiuti, il rischio che un residuo minimo di alcol rimanga c’è. Come dire, togliere l’alcol a un vino è come togliere sangue a una persona».
Alla fine dei conti, quello del vino senza alcol era un approdo inevitabile anche per l’Italia?
«Sono anni che si parla di un prodotto dealcolato. Prima quelli senza alcol erano vini scomposti, squilibrati, ignoranti, tannici e imbevibili. Ora la tecnologia sta venendo molto in aiuto, la mia speranza, quasi una convinzione, è che gli enologi italiani saranno in grado di fare i vini senza alcol più buoni di tutto il resto del mondo».
Siamo in grado?
«Assolutamente sì. La tecnologia italiana vitivinicola a livello di macchinari e strumenti è presente in tutto il mondo. Se a questo aggiunge il percorso di eccellenza di studio e formazione dei nostri enologi, non siamo secondi a nessuno nemmeno per le bevande senza alcol».